Giovanni Paolo Pellegrinelli

«In Africa ho visto, capito, toccato troppo dolore e non ho più potuto far finta di niente»

Ex fotografo, aiuta un dispensario di Antananarivo. «I lockdown hanno ucciso il piccolo commercio e condannato la povera gente»

«In Africa ho visto, capito, toccato troppo dolore e non ho più potuto far finta di niente»
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di Paolo Aresi

«Perché lo faccio? Perché ho capito il dolore dell’essere umano, perché non mi sento a posto pensando alla gente che soffre senza che io muova un dito. Quando ero un ragazzo, avevo 18 anni, sono andato con i padri Monfortani di Bergamo in Africa, in Malawi, ormai mezzo secolo fa. Sono stato in un lebbrosario dove i padri curavano i malati. Ho capito il dolore, ho visto il dolore, ho toccato il dolore e non ho più potuto fare finta di niente».

Giovanni Paolo Pellegrinelli è un missionario laico, atipico. Non è sorretto da grandi organizzazioni, c’è una piccola associazione delle Ghiaie di Bonate che lo sostiene, che lo aiuta. Pellegrinelli ha 67 anni, è di Almenno San Bartolomeo, nella sua vita precedente faceva il fotografo specializzato in matrimoni. Chi volesse aiutarlo basta che digiti il suo nome completo in Internet e trova quello che serve.

Lei va in posti dimenticati da Dio e dagli uomini, rischia la vita. Perché?

«Per quello che le ho detto e perché ho perso due figli piccolissimi, in Africa. Sono morto, in quei momenti, e sono rinato soltanto per la promessa che io avrei aiutato i vivi a restare vivi. Questo è il punto».

Che cosa le è successo?

«Ero sposato in Senegal perché già mi davo da fare in Africa, era il 2009. Ho avuto una bambina bellissima, Aisha. Mi trovavo a Bergamo, una domenica mattina non riuscivo a parlare con mia moglie, ero preoccupato. Il lunedì mattina mi chiamò il responsabile dell’ospedale di Mbour, mi chiese se ero il padre di Aisha Pellegrinelli. Mi disse: “Sua figlia è deceduta”. Mi sentii impazzire, mi sentii morire. Aveva bevuto l’acqua del villaggio, l’infezione gastrointestinale non le aveva dato scampo. Aveva undici mesi. E poi accadde che mia moglie perse un bambino quando era incinta di sei mesi. Terribile».

Lei è andato in Madagascar, che, fuori dai villaggi per turisti, presenta una situazione sociale difficilissima.

«Sono andato là perché c’è tanto bisogno di aiuto. Io do una mano a un dispensario di Antananarivo, la capitale; è come un ambulatorio dove ci sono medici e infermieri di colore che sono degli angeli, non si tirano mai indietro. Io con le offerte riesco a procurare medicinali. E procuro anche gli abiti per la mamma che partorisce e per il suo bambino. Le donne vengono al dispensario con solo un asciugamano di corredo. Al dispensario si paga un minimo per il parto, ma loro non hanno nemmeno quello allora interveniamo noi, io e l’associazione e riusciamo a pagare. Cerchiamo di garantire a tutte le donne prive del necessario un parto nella struttura protetta, così il bambino ha molte più probabilità di sopravvivere».

Che futuro hanno questi bambini?

«Ecco, diamo cento euro al mese alle donne che hanno partorito, per sei mesi. Dopo di che la donna cerca di farcela da sola, altrimenti dà il bambino all’orfanotrofio. Noi non abbiamo la forza di aiutarle di più. Questo nostro intervento consente di evitare le cose più terribili».

Quali cose?

«L’aborto è vietato, le donne fanno nascere il bambino e dopo qualche giorno il bambino sparisce. Questo avviene nella grande periferia della capitale. Nei villaggi no, perché tutti si conoscono, perché se la mamma è sola allora il bambino viene allevato magari da un’altra famiglia».

Ma gli uomini?

«Gli uomini non hanno granché il senso della famiglia, non nella città, nella grande parte dei casi gli uomini bevono, non hanno lavoro, perdono la loro umanità. Soprattutto dopo la pandemia. Vagano senza senso, formano bande, alla sera le donne non possono uscire per strada, è troppo pericoloso. È un problema grave per le ragazze che magari hanno trovato un lavoro nel centro della città: quando tornano la sera rischiano di subire violenze. Non c’è nessuna tutela per le donne che non sono sposate. Se invece fai violenza a una donna sposata allora rischi, perché devi risarcire la famiglia e, se non lo fai, allora non sai per quanto resterai vivo. La pandemia ha fatto precipitare la situazione, che già era precaria. Chi viveva di piccoli commerci non ha più potuto uscire per strada, ha perduto tutto e non c’è lavoro, i maschi presi dalla disperazione perdono la bussola, cercano un guadagno con il furto, la rapina, la droga. Il lockdown ha salvato forse dal Covid, ma ha ammazzato queste periferie. La sera le strade sono disseminate di ubriachi stesi per terra, fino al 2019 non era così. Il senso di insicurezza è terribile, i bianchi che vivono in città sanno di essere in pericolo perché nelle loro case c’è la ricchezza e quindi sono un obiettivo di queste bande».

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