Innuendo dei Queen, 25 anni fa Un sorriso di sfida alla morte
Era appena un mese fa che il mondo della musica salutava David Bowie e questa settimana non ha potuto fare a meno di ricordare Freddie Mercury, nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario della pubblicazione dell’album dei Queen Innuendo.
Innuendo, che uscì il 4 Febbraio del 1991, dev’essere stato per Mercury quello che Blackstar, uscito l’8 Gennaio scorso, è stato per Bowie: un lavoro finito lottando con l’idea, oltre che con la prospettiva, della morte, forse sperando che l’ultimo non fosse, ma che l’ultimo è stato. Mercury morì, infatti, di AIDS, nove mesi dopo aver pubblicato Innuendo, negando, fin quasi alla fine, alla stampa e al pubblico, i problemi di salute di cui si sospettava a vederlo così magro; Bowie è morto due giorni dopo aver dato alla luce Blackstar, lasciando interdetti perfino gli amici più stretti, che non sapevano avesse un cancro da quasi due anni. Ecco, forse, cosa accomuna gli artisti, quelli grandi per davvero: saper dire – dare – di sé, nelle canzoni, quello che conta, l’universale, e saper tacere il resto. Questo, e il puntiglio di continuare a creare, a lavorare Under pressure (sotto pressione – e che pressione – proprio come il titolo della canzone che i Queen e Bowie incisero insieme nell’81), finché la voce tiene, o per dirla con le parole di Mercury: «until I fucking drop», finché non mi lascio cadere.
Per questo non si può ascoltare Innuendo senza immaginarsi la lotta, lo struggle direbbero gli inglesi, che lo ha partorito. Struggle significa sì lotta, ma significa anche divincolarsi. Il suono stesso ne dà l’idea. Divincolarsi tra una domanda e un’altra, in una contraddittoria, e quindi ancor più umana, tempesta di stati d’animo: la volontà, lo sconforto, la speranza, la fede, la nostalgia, l’addio, il sorriso. Ma il piangersi addosso mai. Innuendo raccoglie questo travaglio e ce ne rende partecipi in modo meno criptico di quanto non faccia Blackstar.
L’album si apre con la canzone che gli dà il titolo e che fu anche il primo singolo, Innuendo, che in latino significa allusione, insinuazione. Ma di preciso cosa insinua questa canzone? Che forse non c’è un senso al nostro vivere e morire, che forse vivere lo stiamo facendo male, da secoli e secoli, inseguendo «tradizioni, superstizioni, false religioni»... Ma dobbiamo «continuare a provare, fino alla fine dei tempi», dare il meglio. Innuendo è una canzone complessa, anche in termini musicali, che se la gioca solo con Bohemian Rhapsody per lunghezza e struttura: è introdotta da un bolero, interrotta dal flamenco di Steve Howe, il chitarrista degli Yes, e ha un lirico finale hard-rock. Sei minuti e mezzo di musica non proprio popolare, eppure ci mise solo una settimana a schizzare al primo posto delle classifiche britanniche.
A seguire c’è I’m going slightly mad, un brano dall’atmosfera sonora ben più stramba, psichedelica, in cui Freddie Mercury “ride” delle prime esperienze di demenza causata dalla sua malattia. La chitarra pesante di Brian May torna fuori in Headlong, un singolo perfetto per il live, per quanto non sia esattamente tra i più memorabili brani dei Queen. L’aria resta calda con I can’t live with you: sarà perché parla d’amore – un amore che funziona, «attraverso pazzia e tristezza per un milione di anni», anche quando non funziona – ma è forse la traccia più orecchiabile di tutto l’album. Con Don’t try so hard, i toni si attenuano, salvo esplosione centrale, e pure si confondono: potrebbe sembrare un testo ironico, una presa in giro nei confronti di chi non fa abbastanza ricorso al proprio coraggio, ma più probabilmente è un invito a prendere fiato se il dolore è troppo. Prendere fiato per tornare più forti, più entusiasti, forse più imprudenti, che poi è lo spirito che suggerisce l’incalzante batteria di Ride the wild wind. Saltando la trascurabile All God’s people, che più che da Innuendo prende origine da Barcelona, un precedente progetto di Mercury, si giunge a una delle più commoventi ballate dei Queen, These are the days of our lives, che getta uno sguardo indietro, nelle memorie di un passato felice, per «trovarci ancora amore». These are the days of our lives ha un videoclip altrettanto toccante, l’ultimo in cui appare Mercury, girato a colori ma convertito in bianco e nero perché non si notasse troppo la fragilità delle sue condizioni:
A far tornare il sorriso ci pensa Delilah, la canzone dedicata da Mercury al proprio gatto e poi di nuovo il clima si fa heavy con The hitman, un pezzo che ha l’aggressività giusta per un uomo che «ucciderebbe per amore». Per chi preferisce un pizzico di romanticheria in più, però, c’è Bijou, un pezzo per di più strumentale, cantato più che altro dalla chitarra di Brian May. E sulle note delle indimenticabili tastiere che introducono The show must go on, l’album si chiude con il suo brano certo più celebre e più rappresentativo, quello che meglio ne rivela il messaggio – se un messaggio, nelle opere ultime, ce lo vogliamo per forza trovare. The show must go on, e Innuendo tutto, è un sorriso di sfida, mentre il trucco, e pure il mondo, cascano, come a dire che la morte, se proprio deve venire, andiamo a prendercela di petto.