Jack Kerouac e gli altri come lui che urlavano la vita a squarciagola
Il 21 ottobre ricorrevano i 55 anni dalla morte di Jack Kerouac: lui, il padre spirituale della Beat Generation, colui che ha scrostato dalla corteccia della noia urbana statunitense centinaia di giovani, i quali, da un giorno all’altro, hanno deciso che la vita occorreva urlarla a squarciagola piuttosto che cantarla entro i severi ranghi degli spartiti dei doveri sociali; gente che si muoveva al ritmo sfrenato del sassofono di Charlie Parker e per cui c’era sempre un altrove da esplorare, abbracciare, di cui inebriarsi facendosi beffe di ciò che fosse dovuto o richiesto. Contava solo il desiderio di vita, e nient’altro. Tutti loro avevano in Jack Kerouac un totem, una divinità a cui rendere culto nelle forme e nelle misure di un’esistenza sfrenata, che assaporasse le più bieche trasgressioni tanto quanto i più aulici desideri. Ma chi era quest’uomo, che ha saputo sedurre una generazione intera di americani proponendo una vita tanto dissestata e incerta?
La fame di vita e la Beat Generation. Kerouac era un ragazzo perbene, che volava a scuola tanto quanto sui campi di football, cattolicamente educato dal clima giansenista di Lowell, Massachusetts, sua terra d’origine. Si iscrisse all’università, con la serena certezza che il suo talento inumidito dal sano sudore del lavoratore indefesso lo avrebbe portato ad una vita tranquilla e priva di eccessivi patemi. Ma poi successe qualcosa: come quando un quadro, dopo anni di onorato servizio appeso a una parete, crolla malamente senza aver dato alcuna avvisaglia di cedimento, Kerouac molla tutto. Non si preoccupa più dell’università o di un lavoro stabile, il suo interesse si sposta decisamente più su ciò che l’uomo è, invece che su ciò che dovrebbe essere. Animato dal mito del sogno americano alla Walt Withman piuttosto che alla Horatio Alger (sapendo bene che l’essenza di una persona è nella percezione intima che ha delle cose e non nelle cose stesse), Kerouac parte. Per dove? Non importa: tutto ciò che conta è andare, assecondare la morbosa sete di conoscenza, di scoperta, di esperienza che nei rigidi schemi degli Stati Uniti anni ’40 e ’50 trovava spazio solo negli scantinati suburbani e nelle bettole affastellate lungo la gloriosa Route 66, cariche di leonina fame di vita tanto quanto di bottiglie rovesciate e di fumo di sigaretta.
Kerouac intraprende una vita quasi da nomade, girovagando per l’America inseguendo amici, donne e macchine che passano con la stessa devozione con cui annota tutto quanto gli capita: è così che nasce Sulla strada, romanzo manifesto della Beat Generation e manuale d’istruzioni per una vita che mantiene sempre la bussola orientata alla ricerca della felicità e della natura vera delle cose. Intorno a Kerouac comincia a formarsi una folta schiera di giovani che passerà ben presto alla storia come la Beat Generation: un gruppo di scalmanati che pensa e agisce senza alcun lasso di tempo fra i due momenti, che vive di notte aggrappandosi alla mattina per poi capire che nemmeno l’alba basta, in un’irrefrenabile corsa verso qualcosa che sia davvero in grado di soddisfare i desideri di uomini che vedono nella società e nelle regole non un viatico, ma un ostacolo alla realizzazione di se stessi. Come li definisce lo stesso Kerouac, «pazzi, pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d'artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno "Oooooh!"».
Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg, William Burroughs: sono solo alcuni dei nomi di questi scrittori che riattualizzano gli impeti romantici e bohemien nel bel mezzo del Novecento, riportando in auge un tema che stava passando decisamente sotto traccia in quegli anni, cioè il senso della vita. E tutti, rigorosamente, agli ordini del genio sempre più estatico e vibrante di Kerouac.
«La strada è vita». Chi è stato allora Jack Kerouac, che in questa spasmodica ricerca di qualcosa, chissà cosa, ha lasciato il mondo a soli 47 anni, corroso dalle troppe trasgressioni che hanno costellato il suo peregrinare per l’America? «C’è sempre qualcosa di più, più in là… non finisce mai». Questa frase dello stesso scrittore ne riassume perfettamente la figura: un uomo che ha fatto del desiderio di raggiungere la completezza e la felicità personale la propria ortodossia, vissuta attraverso l’incessante angoscia di chi sa che vuole qualcosa di grande, e non riuscendo a trovarlo non può permettersi il lusso di rassegnarsi. Probabilmente, nel suo infinito approccio a religioni, persone, luoghi e vizi di ogni tipo, non ha mai trovato una risposta piena e soddisfacente a ciò che desiderasse. Ma ancora oggi, Jack Kerouac, una cosa ha da insegnarla a tutti: che una vita non spesa nella costante ricerca del suo senso, è il più grande crimine che un uomo possa compiere. È solo così che la stessa vita diviene realmente interessante: «Dovevamo andare ancora lontano. Ma che importava, la strada è la vita».