La cosa che ci ha insegnato la regina Elisabetta, che era una delle pietre angolari del mondo
«Quando muore la regina Elisabetta sapremo che l’Apocalisse è vicina», ho sempre detto scherzando. Ma non scherzavo
di Elisa Leoni
Prendiamo Gorbaciov. Voi dite a un ragazzino di prima superiore: «È morto Gorbaciov» e lui vi guarda, cercando nella memoria qualcosa che dovrebbe sapere, forse c’entra con storia, però non gliel’hanno chiesto all’esame. Bevete il caffè dalla nonna, le dite: «È morta Olivia Newton-Jones». Lei, tra la moka e lo Scottex di tovagliolo che vi sta preparando, risponderà solo: «Chi éla chéla lé?». Diversa sarà la sua reazione sulla Vitti. Ma andate a dire a un collega giovane: «È morta Monica Vitti»; vi guarderà capendo di dover sapere quanto sia grave, ma niente, no, è troppo giovane.
Ora prendete chiunque, e dite: «È morta la regina Elisabetta». Lo dovete dire così: la-regina-Elisabetta, senza cognome, senza numero dopo, senza bisogno di usare l’inglese. Potete dirlo a un aborigeno dell’Australia del Sud come a un bambino di sette anni giapponese, come a mia nonna mentre prepara il caffè, come al cameriere che vi sta servendo il sushi nel momento in cui la notizia arriva, la sera dell’8 settembre 2022.
Al cameriere non lo dite voi, lo dice un collega da dietro al bancone. Il cameriere si ferma col piatto a mezz’aria, uramaki dello chef all’olio; si gira e dice: «Ma come». Poi lascia il piatto, torna dal collega, parlottano sopra lo smartphone: «Fammi vedere». I due amici al tavolo dietro di me, età media 24 anni, cercano subito su Google. Mio padre mette come stato WhatsApp uno degli scatti più recenti: tailleur celeste, triplo giro di perle, spilla a doppio fiore tempestata di diamanti, soffici capelli bianchi, immancabile rossetto tendente al fucsia. «Te, ma hai visto che è morta la regina Elisabetta», dice una signora per strada a un tizio col cane. Non ce n’è uno al mondo che non reagisca in qualche modo. L’amica con cui scrivo del senso della vita in chat, mi manda un messaggio subito: «Dimmi qualcosa».
Dico che lo sapevo. Settant’anni di regno, il record di longevità al trono, una cosa sta a fare ancora qui. Dico che lo sapevo dal momento in cui l’ho vista, sola in mezzo al legno scuro, seduta al suo scranno nella cappella di Windsor, il giorno del funerale di Filippo. Ho pensato: «Fa la festa dei settant’anni, e poi se ne va». Perché è intelligenza, morire quando si è fatto il proprio dovere meglio di tutti gli altri, e quando ancora tutto il mondo si ricorda di te. Quando chiunque nel mondo reagisce alla notizia, e non ci crede volentieri.
Il mondo senza di lei non è lo stesso. È un mondo in cui re adesso è un uomo sgraziato, sposato all’amante di sempre; vedovo di una donna che è morta come è morta, ma è morta comunque più bella e più amata di lui. È un mondo in cui al trono un giorno salirà un ragazzo già stempiato che parla di salute mentale e ha quel modo dolce e pieno di cure che è così tanto un marchio di certi uomini della mia generazione. È un mondo in cui regina consorte, al prossimo giro, sarà una figura secca secca che fa tutto giusto, ma che ha sempre addosso quel sorriso delle assistenti di volo. È un mondo squinternato ed emotivo, o un po’ finto. È il nostro mondo, senza di lei.
La regina Elisabetta era molte cose: una bambina non destinata al trono dopo un padre non destinato al trono, come Frodo Baggins dopo Bilbo, portatori dell’anello. E mai twist, o chiamata, della storia fu più lungimirante dai tempi della prima Elisabetta, la vergine più unica che rara. Elisabetta era una ragazza che non aveva studiato, che vicino ai capi di Stato non aveva lauree da sfoggiare come la moderna royalty. Era una che sorrideva malvolentieri, che aveva un humor serissimo, che non ha mai fatto nulla per smorzare il suo accento inconfondibile, che non stringeva la mano se non lo prevedeva il protocollo, che non mollava mai la borsetta né un certo modo compìto per cui - a guardarla in video su YouTube mentre pronunciava il discorso di Natale - a me, sbragata sul divano, è sempre venuto da mettermi seduta bene, con le spalle dritte. Era una regina, fine. Era credibile che lo fosse, perché lo era davvero. Adesso immaginate Camilla, o Kate: mica possiamo crederci nello stesso modo, non è uguale.
Mi spiego meglio con un episodio della sua vita, un po’ gossip e un po’ no. Nel 1961, Kennedy va da lei, portandosi Jacqueline. Elisabetta ha 35 anni, più o meno la mia età di adesso; ha già tre dei suoi quattro figli, è regina da otto anni, sta per partire per un tour mondiale tra Commonwealth e Paesi vari. Jacqueline ha tre anni in meno di lei, sembra molto più giovane di lei, le sono pure scappati dei commenti circa il taglio di capelli di Elisabetta. Elisabetta si fa preparare da Sir Hartnell un abito moderno, indimenticabile: blue royale con le spalline, ampio, fiabesco, niente a che vedere con i suoi soliti vestiti; ma un abito che sta bene solo a una regina, non a una first lady. Non è mica scema. Nelle foto sono entrambe belle e giovani, ma Elisabetta ha anche una parure di zaffiro impressionante, forse quella che gli ha regalato suo padre Giorgio; sembra proprio quella con cui festeggerà, anni dopo, il giubileo di zaffiro, 65 anni di regno; Jacqueline allora sarà morta da tempo. Nel 1961 è ancora viva e - quando torna in America - riferisce quanto poco l’abbia impressionata quella regina d’oltremare, che giudica «insignificante».
Elisabetta viene a saperlo, commenta solo: «Beh, dovremmo invitarla di nuovo, presto». Nella serie tv The Crown gliela fanno reincontrare al castello di Windsor. È una delle mie scene preferite: Elisabetta è seduta in quella roccaforte che ha dato alla sua famiglia il cognome inglese, al posto di quello originario tedesco, e aspetta. Jackie, da sola, deve salire gli scaloni in pietra, picchettati a ogni due passi dalle guardie impettite e mute di Elisabetta. Non è Buckingham Palace, è una fortezza, è la corona: fredda, silenziosa, dura; il cui cuore è Elisabetta. Nella sala in cui si incontrano devono prendere il tè insieme. Ma Jackie ha già perso, perché si è spaventata di quel silenzio, di quella solitudine, di quell’esattezza senza fantasia. Non sa che è così che vive, ogni giorno, per sempre, una regina. E mentre guarda questa sua coetanea capisce: «insignificante» è precisamente quello che deve sembrare una regina, perché è una regina; accattivante è quello che serve a una first lady per non passare inosservata, perché in verità non è niente, se non la moglie di qualcuno che passa presto.
«Insignificante» è quello che a una socialite americana sembrano una serie di cose: fare il proprio dovere senza rumore, tenere posizione, restare coerenti a se stessi e a un ruolo che leggero non dev’essere mai stato, ma farlo sembrare l’unico possibile per sé, perché è quello a cui si è stati chiamati. Farlo mettendosi da parte, sacrificando tutto in nome della corona. Sacrificando tutti, anche. Siamo sentimentali noi oggi guardando i video di Lady D, le interviste di Meghan e Harry, le puntate di The Crown in cui scopriamo che la sorella Margaret non ha mai potuto sposare l’uomo che amava perché divorziato. Siamo sentimentali perché crediamo che ogni cosa debba stare al servizio dell’umano, delle emozioni, della fragilità; ogni cosa debba consolarci, cullarci, farci sentire al sicuro, amati. Elisabetta a me ha insegnato, senza parlare, che la vita non è fatta di emozioni, è fatta di scelte. Che chi non capisce il qualcosa-di-più-grande per cui ognuno ha un suo posto nel mondo e lo deve tenere con coerenza, non sta capendo la vita. Il qualcosa-di-più-grande per lei era la corona. Per me?
«Quando muore la regina Elisabetta sapremo che l’Apocalisse è vicina», ho sempre detto scherzando. Ma non scherzavo. Intendevo dire che quando muore una così, viene sfilata una delle pietre angolari del mondo, e come il mondo si riaggiusti dopo, come stia su, davvero non saprei dire.