La leggenda di Artù a Glastonbury (In realtà una bugia dei monaci)
«A mali estremi, estremi rimedi», devono aver pensato i monaci benedettini di Glastonbury, dopo che un incendio, nel 1184, ridusse in macerie la loro abbazia insieme al resto del paese e a tutti i tesori della comunità. Per far fronte alla ricostruzione del complesso monastico, quel drappello di uomini di Chiesa escogitò pochi anni dopo una truffa che sopravvisse fino all’avvento della Riforma Protestante, una frottola che per i 400 anni seguenti assicurò all’abbazia un abbondante afflusso di pellegrini e un notevole ritorno economico: nel 1191, i monaci annunciarono a tutta Inghilterra di aver rinvenuto nel sottosuolo di una cappella un tronco che riportava incise le parole: «Qui giace sepolto l'inclito re Artù nell'isola di Avalon». Ma andiamo con ordine.
Giuseppe d’Arimatea. Siamo a Glastonbury, nel Somerset, a sud di quella che oggi è conosciuta come la città di Bristol, ma che allora era ancora chiamata Brycgstow. In quegli anni la storia di Re Artù andava per la maggiore. La sua popolarità dipendeva dalla grande fortuna che aveva avuto l'Historia Regum Britanniae, un’opera scritta da Goffredo di Monmouth sui re britannici, fra cui si annoverava proprio il grande sovrano di Camelot. Questa specie di best seller raccontava di un’isola dove si sarebbe recato in visita un giovanissimo Gesù in compagnia di Giuseppe d’Arimatea. Quest’ultimo, presente in tutti e quattro i vangeli del Nuovo Testamento, era colui che avrebbe raccolto il sangue di Cristo crocifisso nella coppa dell’Ultima Cena, Il Santo Graal, che sarebbe stato traportato da Giuseppe sul quella stessa isola destinata a diventare la sede della prima chiesa di Britannia: Avalon.
L’incendio e la trovata dei monaci. Prima che l’incendio distruggesse ogni cosa, quello di Glastonbury era uno dei più grandi centri della Gran Bretagna. Grazie alla sua produzione di vetro, antica di secoli, era un polo artigianale importante al punto da attirare l’attenzione del re Ine di Wessex che, nell’VIII secolo, decise di abbellirne l’abbazia. La chiesa divenne in effetti la più splendente di tutta Inghilterra, ma solo fino all’incendio del 1184, che la devastò quasi completamente. Fu allora che i monaci idearono lo stratagemma del ritrovamento delle spoglie di Artù e della moglie Ginevra: con una fastosa cerimonia, cui parteciparono anche il re Edoardo I e la regina, i resti vennero trasportati e seppelliti di fronte all’altare maggiore.
Glanstorbury come Avalon. Ma,dato che la leggenda narrava che re Artù fosse stato sepolto dalla fata Morgana sull’isola di Avalon, il luogo mitico venne a sovrapporsi proprio col centro di Glanstonbury. Per far combaciare i pezzi alla meno peggio, si iniziò a raccontare che la collina del villaggio fosse un tempo circondata dalle acque come un’isola e, più in generale, il paese divenne crocevia di tutte le leggende pagane legate al ciclo arturiano: qui Giuseppe d’Arimatea sarebbe sbarcato per sfuggire alle persecuzioni dei cristiani e, soprattutto, Glanstonbury fu riconosciuto come la sedicente culla del cattolicesimo inglese, nonché terra un tempo calpestata dal piede del figlio di Dio. E allora ecco che i pellegrini di tutto il paese confluirono numerosi all’abbazia per i secoli a venire, riempiendo in abbondanza le tasche dei suoi monaci.
Com'è finita. L'epilogo della vicenda è in realtà piuttosto banale: intervenne infatti la storia a porre fine a tutta la leggenda, con l'arrivo di Enrico VIII, che chiuse tutti i monasteri cattolici, provocando così l’abbandono del sito e della tomba. Ora a Glastonbury c'è solo qualche rovina. E un festival di musica pop-rock che si svolge al vicino villaggio di Pilton. Niente a che vedere con Avalon.