La morte misteriosa dei giornalisti che volevano raccontare l'Isis

Aveva scelto con coraggio di raccontare dal di dentro gli orrori dell’Isis, e per farlo usava Facebook e Twitter. Aveva 30 anni, era musulmana, curda di origine, indossava il velo, ed era l’unica giornalista indipendente donna che ha avuto il coraggio di sfidare il Califfo e i suoi seguaci rimanendo a Raqqa. Tutto quello che si sa della vita nella roccaforte siriana dello Stato Islamico lo si deve anche a lei. Almeno tutto quello che è arrivato a noi fino a tre mesi fa. Perché la morte di Nissan Ibrahim, pseudonimo di Ruqia Hassan, risalirebbe a tre mesi fa.
"Nissan Ibrahim" Syrian activist from #Raqqa has been executed in Raqqa city by #IS #RIP . pic.twitter.com/KM8dEILMtr
— الرقة تذبح بصمت (@Raqqa_SL) 2 Gennaio 2016
Lo pseudonimo. Le cronache che hanno reso noto il suo pseudonimo erano articoli ironici e al tempo stesso carichi di speranza. L’arma più temuta in possesso di Ruqia era il suo sorriso, che mostrava con fierezza su un viso luminoso e dai grandi occhi scuri, incorniciato dall’hijab. L’Isis la considerava una spia dei ribelli, forse perché nel 2011, dopo aver studiato filosofia all’università di Aleppo, aveva prese parte ai movimenti di protesta contro Assad. L’esecuzione di questa donna coraggiosa che ha deciso di non abbandonare la sua città, combattendo due nemici – il regime e l’Isis – è unica nel suo genere poiché è la prima volta che il sedicente Stato Islamico condanna a morte una giornalista-cittadina per aver svolto giornalismo nel territorio dell’autoproclamato Califfato.
L’ultimo post su Facebook. Su Facebook lo scorso mese di luglio Ruqia parla della guerra al Wi-Fi dichiarata dai jihadisti in città. La traduzione del post, diffusa dall’Independent, suona più o meno così: «Avanti tagliateci internet, i nostri piccioni viaggiatori non se ne lamenteranno». Pare che questo sia l’ultimo post scritto dalla donna: gli jihadisti poi avrebbero preso il controllo del suo profilo, continuando ad aggiornarlo fino a una settimana fa per comunicare con quanti la credevano ancora viva.
Stessa fine anche per Naji Jerf. Ruqia non è l’unica giornalista uccisa per aver parlato dello Stato Islamico. La stessa sorte è toccata a Naji Jerf, un reporter autore di documentari anti Isis. È stato ammazzato a Gaziantep, in Turchia al confine con la Siria, dove aveva trovato rifugio dopo essere scappato da Raqqa. Jerf era il fondatore dell’associazione “Raqqa viene massacrata in silenzio”, che dall'aprile del 2014 racconta in clandestinità come i jihadisti operano nella città del nord della Siria, considerata la loro capitale. Pochi giorni prima di essere assassinato aveva ottenuto un visto da rifugiato per sé e la sua famiglia dalla Francia e avrebbe dovuto trasferirsi a Parigi.
“Raqqa viene massacrata in silenzio”. Anche Jerf, come Ruqia, era un “citizen journalist” e insieme ad altri cittadini di Raqqa aveva dato vita a un’associazione di cronisti anonimi per documentare gli orrori dei jihadisti. Anche Ruqia vi collaborava. Recentemente il loro lavoro era stato premiato con il prestigioso Press Freedom Award. Proprio per il loro lavoro di informazione l’associazione era finita nel mirino dei terroristi islamisti. Se Ruqia aveva scelto i social network per raccontare la vita a Raqqa, Jerf mostrava la Siria dall’occhio della sua telecamera, denunciando l’Isis e non risparmiando critiche e attacchi al governo di Assad. Proprio le sue prese di posizione contro il regime gli valsero, nel 2012, l’arresto e la tortura nelle carceri di Damasco.
Ancora una volta la Turchia nel mirino. Quello che fa scalpore nel caso di Jerf sono le modalità con cui è stato assassinato. L’omicidio non è avvenuto a Raqqa, come nel caso di Ruqia, ma in Turchia, proprio mentre il giornalista era in procinto di lasciare il Paese perché rifugiato politico. C’è chi ha visto nel gesto una responsabilità di Ankara, più volte ritenuta complice di coprire gli orrori e favorire in qualche modo l’Isis. Di sicuro è palese la facilità di movimento degli islamisti in territorio turco. Non è la prima volta, infatti, che attivisti di “Raqqa viene massacrata in silenzio” sono morti in Turchia, nel silenzio assordante della comunità internazionale.