La morte senza motivo di Niccolò e questa società fuori controllo
Perché ? La domanda è di tutti, corre di bocca in bocca ed è il tormento di questi giorni. Perché un ragazzo di ventidue anni, che ha appena assaggiato la vita, se la vede rubare da un gruppetto di spostati teppistelli in vena di bravate notturne, perché?
La cronaca è arcinota a tutti, quindi è superfluo tornarci sopra: Niccolò è stato ucciso da un terzetto di giovani violenti per motivi banalissimi, anzi probabilmente senza nessuna vera ragione. Solo per esibizionismo, per fare la voce grossa di fronte alla platea dei loro amici, per dare spettacolo perfetto dell'idiozia sempre più dilagante ai nostri giorni. E a godere di questo show di sangue, di dolore e morte il pubblico dei cretini fatti e finiti del nostro tempo, quelli che credono di vivere in un eterno videogioco dove tutto è ammesso e plausibile. Indifferenza abulica: questa è l'espressione chiave che connota troppo spesso la nostra bella gioventù fatta di sguardi vuoti, atteggiamento assente, occhi sprofondati nello smartphone.
Felici di vivere nel nulla perfetto, insomma, in una guazza di incontrastato menefreghismo e assenza, complice spesso la mancanza di educazione severa da parte di genitori, suggestionati dai protocolli finti di un assurdo sociale di moda. Questi sono i risultati estremi. Eppure che la quasi totalità dei nostri rampolli faccia precoce uso di droghe è ormai il segreto di Pulcinella: ma per papino e mammina, sindacalisti dei figli e pronti alla incondizionata assoluzione, il loro è sempre diverso, fino al momento in cui non scoppia 'a sorpresa' la tragedia. Il mondo dei social scoppia di indignazione, come potrebbe essere altrimenti?
Ma diciamolo francamente: sembra di assistere alle urla di pancia e poco di testa di certe risse paesane, dove si pensa di combattere 'le ingiustizie' solo a suon di sedie spezzate sul groppone. Ci scommetto che tra quelli che giustamente si indignano per l'assurda morte di Niccolò ce ne sono tanti che a quelle risse hanno partecipato, da boia o da vittime, oppure che magari si sono macchiati della stessa colpevole accidia dei tanti che avrebbero potuto intervenire e non lo hanno fatto.
Mettiamocelo in testa: una trasmutazione antropologica è in atto e ormai è raro trovare chi risponde correttamente a quei codici etici e comportamentali che avevano connotato il nostro mondo fino a una ventina di anni fa. Abbiamo smarrito le radici e l'appartenenza a un passato, a una storia, come un peso che infastidisce e ingombra. Da filosofi d'accatto pensiamo che il carpe diem sia una pratica per chiunque, anche per chi con la terza asilo pontifica dalle pagine Facebook con la saccenza del minus habens. Vivere giorno per giorno, significa vivere la propria giornata nella coscienza di sé e del proprio dovere responsabile verso se stessi e gli altri, e niente affatto allo stato brado o sull'impulso di istinti bestiali.
Un film del '60 che vi invito a vedere (si trova gratis in rete) è L'Uomo che visse nel Futuro di George Pal. La storia è avventurosa e per certi versi improbabile, ma il messaggio è incredibilmente profetico. Una ragazza sta per annegare sotto gli occhi disinteressati dei suoi amici che continuano a divertirsi. Una biblioteca è piena di libri, che però appena aperti si sgretolano tra le mani: archeologia di un passato e di un’umanità ormai estinti. Lo scrittore del libro che ha ispirato il film, H.G. Wells, è un veggente alla Verne, perché nel remoto 1895 aveva previsto cose che si stanno avverando adesso. La situazione è allarmante, a dispetto dell'atteggiamento radical-easy dei sociologi di tendenza e degli iper relativisti secondo i quali, con scoperta da Nobel dell'acqua calda, ogni epoca ha avuto i suoi problemi. Qui è diverso: in questo caso ci troviamo di fronte a una frattura epocale senza precedenti, a una separazione che sancisce la cesura più assoluta tra il presente e l'appartenenza a questo pianeta in qualità di essere umani, così come concepiti ab initio.
Se qualcuno temeva o continua a temere la fine del mondo, si guardi intorno e non tarderà a scoprirne tutti i più salienti sintomi, factis concludentibus. Atroce quello che è successo a Lloret de Mar, eppure segno evidente di una civiltà imbarbarita e al suo declino: non tanto e solo per la rissa violenta, purtroppo né la prima né ultima, ma per tutto il contorno, per l'orrida cornice che la segue. La vigliaccheria indolente degli astanti che filmano con il loro stupido telefonino quanto sta accadendo davvero sotto i loro occhi, senza sognarsi una reazione reattiva, non dico per forza intelligente. Il teatrino scontato delle indignazioni di certi sfaccendati della tastiera, in qualche modo simili a quelle del mondo carcerario dove l'avanzo di galera sputa veleno contro il crimine di un suo collega per emendare il proprio. La prevedibilissima scarcerazione di un paio degli imputati, in nome di una giustizia globalizzata e che proprio per questo usa nei metodi la stessa finezza di un fast food. Il buco nerissimo della sicurezza nel locale, che ha forse girato le spalle mentre i fatti si stavano compiendo. Particolari su cui si indagherà certamente, perché a questo proposito qualcosa del genere si è verificato ai danni di un caro amico vittima anche lui di un'amara esperienza, per fortuna conclusasi in modo non così grave.
Insomma, chiudere gli occhi di fronte a una fine così straziante non è possibile, non si può più tollerare per nessuna ragione e la certezza della pena deve essere senza sconti e senza andare a scovare assurde giustificazioni. Tutti sappiamo che vivere non è la cosa più agevole, ci vogliono equilibrio e talento, buona volontà e spirito di sacrificio. Tutti sappiamo che è necessario convivere con i propri dolori, con traumi che provengono dal mondo bambino e da quello adulto. Ci conviviamo serenamente, e non per questo ce ne andiamo in giro seminando sofferenza e lutto. Di questo volgiamo augurarci tengano conto i signori giudici, con la speranza che non siano così tanto giovani da soffrire i danni di una società irrimediabilmente corrotta.