L'arte malinconica di Martinelli che esplora le «vaste profondità»
«L’arte di Andrea Martinelli è antica, magistrale e irrispettosa. Silenziosa e mite come il suo autore. Nelle chiese vorrei vederla». Così scriveva tempo fa Edoardo Nesi. E invece adesso le sue opere, esposte nelle mostre più prestigiose tanto in Italia che all’estero, sono approdate agli Uffizi , mentre un autoritratto intitolato La Bocca, opera di notevoli dimensioni e di straordinaria potenza evocativa, è stato donato alla pinacoteca dallo stesso artista per arricchire la sezione speciale dei Corridoi Vasariani dedicata appunto agli autoritratti.
Nato nel ‘65 a Prato, Andrea Martinelli, dopo il diploma all’istituto d’arte di Firenze, si segnala presto per il suo talento fuori dall’ordinario, finché con Senescenze, opere realizzate negli anni Novanta, arriva a suscitare l’attenzione del famoso storico e critico d’arte Giovanni Testori. Da questo momento la carriera del pittore diventa inarrestabile, mentre si moltiplicano i consensi in occasione delle sempre più numerose collettive e personali. Una sua opera si trova adesso all'interno della mostra Tesori d'Italia, allestita all'Expo di Milano. Viso aperto, sguardo riflessivo e acuto, l’artista ama mescolarsi con la gente in trattoria o nei caffè, orgoglioso della sua genuina toscanità. Ed è ai tavolini di uno di questi locali, dove il vernacolo si mescola al tintinnare dei bicchieri portati sul vassoio, che lo incontriamo.




Martinelli, immagini un autoritratto usando non i pennelli ma la penna, cosa ne verrebbe fuori?
«Il primo colpo di penna rivelerebbe che sono, un po' come tutti gli artisti, una prima donna. In ogni artista è forte il desiderio di essere amato, per questo nelle mie opere riverso tanto amore con l'intima esigenza di essere corrisposto. Poi proseguendo aggiungerei che sono fin troppo pignolo, cosa che a volte mi fa innervosire. Di più: sono orgoglioso, permaloso ma in compenso anche tanto generoso. Ed ecco il ritratto un po' stereotipato dell'artista, che il più delle volte è esattamente quello».
Quali storie di “evoluzione” ci sono dietro un pittore come lei?
«Mi considero sostanzialmente un pittore fuori del tempo, perfino anacronistico: eppure sono sicuro che il miglior modo di essere attuali è proprio non esserlo affatto. La vera arte non ha tempo: io lavoro sul passato, sulla memoria e su quanto riesce a sorprendermi perché lo osservo con occhi fanciulli. Niente di più bello che guardare il mondo con lo stupore di un bambino...».
Lei dipinge spesso la vecchiaia, è un’ossessione o una passione?
«Direi che dipingo la storia dell'uomo e della donna, che nel loro volto trattengono le tracce di vite intere fatte di drammi gioie e speranze. I tratti fisiognomici, le rughe e le imperfezioni minute si imprimono come una carta geografica di cui forse inconsciamente mi servo per tentare di conoscere le vie che portano a segreti e ombre della mia stessa anima».
C'è speranza nei suoi quadri o la lucida consapevolezza della fatale fine comune?
«Sono in tanti a considerare le mie opere tristi e senza speranza, specialmente nella nostra epoca in cui la gente cerca soltanto la spensieratezza e la leggerezza fino alla banalità. Così di fronte a cose come le mie, decisamente profonde e malinconiche, si tende a scappare, credo soprattutto da se stessi. Pensare è molto impegnativo... Un giorno il cantautore Luigi Tenco venne apostrofato da un giornalista sul perché della tristezza di certe sue canzoni: “Quando sono allegro vado in discoteca a ballare”, fu la sua risposta. Sono convinto che l'arte, la vera grande arte, ha sempre bisogno di vaste profondità da esplorare».
Con quale stato d'animo si siede davanti al cavalletto di solito?
«Tutte le volte è un miracolo che mi fa sentire l'essere più fortunato del mondo. Amo alla follia il mio lavoro, e ogni giorno ringrazio Dio per questo. Mio padre, fiero di questa mia scelta, mi ha sempre incoraggiato: “Vai avanti anche se tu dovessi mangiare pane e cipolla”. Quindi anche se un giorno il mondo mi girasse le spalle non smetterò mai di dipingere...solo per continuare ad essere felice!».
Quanto conta essere toscani per un pittore contemporaneo?
«Per molti miei detrattori essere toscano e dipingere secondo i canoni della tradizione significa essere nostalgico e passatista, così ti guardano con sospetto. Sono convinto che se fossi nato per esempio in America sarebbe stato diverso. Anche se amo la Toscana, cui rimango avvinto come a una madre ingombrante».
Che aria si respira di questi tempi per un artista?
«Beh, l'aria che respiriamo in questo periodo non è serena per nessuno, figuriamoci per un artista! Dal 2008 in poi le cose sono cambiate un po' per tutti, e gli artisti che riescono a resistere sono solo quelli che hanno saputo lavorare seriamente. Per fortuna, molti collezionisti sparsi in tutta Europa mi seguono con grande passione, e quando possono mi danno una mano. Reputo quello di un artista non un lavoro, bensì una missione. E una missione non puoi portarla avanti da solo: hai bisogno di sostegno, non solo economico, ma anche della vicinanza di qualcuno che crede in te e nei tuoi progetti. È sempre stato così e sempre sarà!».
Ci parla dei suoi rapporti con Expo?
«Ho mandato un'opera ad Expo Milano all'interno della mostra Tesori d'Italia curata da Vittorio Sgarbi nel Padiglione Eataly di Oscar Farinetti. Sgarbi ha scelto, come al solito, un nutrito campionario di artisti da ogni regione d'Italia, cercando di fare un punto sull'attuale arte italiana. Purtroppo, come spesso ho discusso con lui in persona, spesso i suoi allestimenti mancano della necessaria coerenza e della realizzazione di un coeso e convincente “tutto armonico”».
Ha avuto mai contatti con la città di Bergamo?
«Mi lega a Bergamo l'amore per un grande artista contemporaneo, che aveva uno studio lì e anche a Milano. Si chiamava Gianfranco Ferroni: un autentico poeta, un talento puro e genuino come pochi. Ho avuto l'onore di esporre con lui in una doppia personale dedicata a entrambi alla Galleria Montrasio nel 2006».
L'ultimo suo viaggio in America dove lo ha portato e cosa le ha portato?
«Negli Stati Uniti, da un ricco immobiliarista ebreo, che vive a Manhattan. Ha già una dozzina di mie opere acquistate in Italia in alcune gallerie private e nella sua vasta collezione figurano artisti come Otto Dix, Giacometti, Schiele, Klimt, Botero, solo per citarne alcuni. Finalmente mi ha voluto conoscere e così ha ospitato me e la mia compagna Martina nella sua casa a New York. Una splendida vacanza passata tra i maggiori musei e la sua villa da sogno sulle rive del lago di Milan, nel Massachiussets. Cosa mi ha portato? Interessanti progetti di lavoro!».
Ci rivela un suo sogno, che sia davvero autentico?
«Il mio sogno nel cassetto è sempre stato quello di fare una mia mostra personale agli Uffizi. Un anno e mezzo fa questo desiderio si è avverato, ed oltre a questo il museo ha voluto esaudire un altro mio sogno, chiedendomi un mio autoritratto da inserire nella famosa collezione del Corridoio Vasariano. Cosa potrei voler di più dalla vita?».