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Sette leggendari vincitori della kermesse veneziana

La 71esima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ha assegnato il Leone d’oro allo svedese "A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence" ("Un piccione appollaiato sul ramo riflette sull’esistenza") di Roy Andersson. L’Italia è stata premiata con la Coppa Volpi alla miglior attrice per Alba Rohrwacher.

Sette leggendari vincitori della kermesse veneziana
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Dalla sua creazione, Venezia è stata la culla di grandissimi capolavori, più o meno giustamente riconosciuti. Vi proponiamo una breve carrellata di sette film premiati al Lido, per ricordare alcuni grandi titoli e suggerire di recuperarli a chi non abbia ancora avuto il piacere di vederli.

 

 

Era il 1950 e lo strapotere della cinematografia americana schiacciava ancora in maniera quasi totale quello delle filmografie altre, provenienti da tutto il resto del mondo. Poi arrivò a Venezia Akira Kurosawa, che si intascò il Leone d’Oro (massimo riconoscimento tributato al Festival) con Rashomon. Per tutti gli estimatori del cinema orientale questa è una data capitale, che segna in maniera indelebile la penetrazione del cinema giapponese nelle sale e nella sensibilità occidentali. Certamente si è trattato di un processo lungo e ancora lungi dal concludersi considerando che la maggior parte dei prodotti cinematografici nipponici o più genericamente asiatici non arriva fino a noi, ma Kurosawa ha avuto il grande merito di saper svegliare i nostri sguardi, aprendoli a inedite e forti suggestioni. Film dalla cornice storica tradizionale, l’opera di Kurosawa si allontana dai paradigmi di altre sue opere per svelarci una sensibilità più intimista e una ricerca per l’approfondimento psicologico dell’uomo. Tre personaggi espongono davanti a un tribunale la loro versione dei fatti su una vicenda giudiziaria che li vede coinvolti in qualità di testimoni: al procedere della storia, anziché dipanare ogni dubbio, la narrazione si aggroviglia in maniera inestricabile e il raggiungimento della verità appare sempre più come un obiettivo irrealizzabile. Ciò che muove gli individui, ci suggerisce Rashomon con una punta di amarezza, è il guadagno del singolo e non il raggiungimento di una giustizia che sia davvero soddisfacente.

 

 

Gli anni Cinquanta sono stati anche per Hollywood un periodo di forte ripensamento produttivo e artistico: sebbene i grandi cambiamenti della modernità fossero ancora di là da venire, nelle majors cominciava a diffondersi un’aria nuova, grazie a opere seminali come Fronte del porto. Con questo film Elia Kazan si conquistò il Leone d’Argento e il Premio della critica nel 1954. Il film è fra i primi (insieme a Gioventù bruciata) a proporre un nuovo corso narrativo nel cinema americano: l’eroe, interpretato da un eccellente Marlon Brando, è tutt’altro che un personaggio positivo e senza macchia. Per la prima volta vediamo dispiegarsi sullo schermo la misera vicenda umana di uno scaricatore di porto che, a seguito di un lungo e travagliato esame di coscienza, deciderà di abbandonare la fascinazione del crimine e di cambiare la propria vita. Girato quasi completamente in esterni, il film è cupo, gravido di significazioni politiche ed etiche che rendono ragione della sua grande attualità.

 

 

Uno degli autori più ingiustamente dimenticati del nostro cinema, oltre che della nostra letteratura, è senza dubbio Pier Paolo Pasolini. Ostracizzato dai programmi scolastici nonostante abbia prodotto opere letterarie di grande rilievo e straordinaria attualità come Lettere luterane e Petrolio, viene apprezzato oggi più come regista che come autore. Anche in questo campo, però, l’apprezzamento non è unanime a causa di alcuni lavori molto controversi come Salò o le 120 giornate di Sodoma, ultima pellicola realizzata che convoglia in una violenta icasticità tutta la critica sociale di Pasolini alla società dei consumi. Non stupirà quindi che anche un film come Il Vangelo secondo Matteo, insignito del Leone d’Argento e del Gran Premio della Giuria a Venezia ’64 abbia riscosso numerosissime critiche, alcune delle quali anche piuttosto violente. Pasolini infatti propone un compendio della vita di Cristo privato dei miracoli e delle vicende escatologiche: quello che resta è uno scabro, asciutto, racconto sulla figura umana di Gesù, privata praticamente di tutte le sue valenze sacrali. Teologicamente il risultato è disarmante e davanti allo spettatore non rimane nulla del messaggio di speranza di cui i testi sacri sono intrisi. Ciò nonostante il lavoro di Pasolini è come sempre encomiabile per la sua grande sensibilità, enunciata anche attraverso forti richiami alla storia dell’arte italiana (sono presenti, ad esempio, numerosi riferimenti all’arte di Piero della Francesca). Notevole anche il carico di attualità di un film che si vorrebbe fuori dal tempo, con il richiamo evidente alla figura dei più deboli, che ricalcano in maniera piuttosto chiara la memoria del Terzo Mondo e delle condizioni dei suoi “cittadini”.

 

 

Fra gli interpreti del Neorealismo, Luchino Visconti è senza dubbio il regista che ha interpretato in maniera più personale lo stile sorto a partire dal secondo dopoguerra. Di formazione internazionale, Visconti si è sempre caratterizzato per il suo cosmopolitismo e per la capacità sincretica di riunire in sé le suggestioni visive più diverse: a partire da film di schietta impostazione realistica come Bellissima e soprattutto La terra trema, il cineasta raggiungerà risultati di pregio lungo tutto l’arco della sua carriera, arrivando a proporre lavori complessi come Ludwig e Il Gattopardo. È però il 1965 l’anno in cui, con Vaghe stelle dell’Orsa si guadagna il massimo riconoscimento al Festival di Venezia. Il titolo, mutuato dall’incipit de Le Ricordanze leopardiane, introduce in un dramma dai sapori decadenti, in cui sono palesi i riferimenti al teatro tragico greco e alla poetica di Gabriele d’Annunzio. Un eccellente Claudia Cardinale diventa protagonista di un morboso dramma familiare, in cui un posto di primo piano viene riservato alla memoria traumatica del padre, vittima dei Lager nazisti. Tutto sommato un film modesto, che forse non avrebbe meritato un riconoscimento così elevato, ma che rimane comunque un ottimo esempio delle logiche dei Festival, oltre che di sintesi visiva di diverse suggestioni letterarie.

 

 

Spesso i film diventano dei capolavori o si imprimono nella memoria collettiva non solo per le capacità del regista, ma anche per la bravura dei suoi protagonisti. È il caso del film Belli e dannati, uno dei titoli più modesti realizzati da Gus van Sant. Il regista di Portland è senza dubbio uno dei migliori interpreti del cinema contemporaneo, ma avendo lavorato per buona parte della sua vita a stretto contatto con le majors ed essendosi spesso adeguato a logiche di mercato, la sua filmografia è piuttosto altalenante per quanto riguarda la riuscita artistica dei suoi lavori. Per quanto Belli e dannati, libera e moderna reinterpretazione dell’Enrico IV di Shakespeare, sia in effetti un film di non troppe pretese, è necessario ricordare l’ottima interpretazione fornita da River Phoenix, giustamente insignito della Coppa Volpi proprio per questo motivo. Accompagnato da Keanu Reeves, il compianto divo americano interpreta un ragazzo di vita, che sceglie la prostituzione per tirare avanti. Il suo problema più grande è però rappresentato dalla narcolessia che lo costringe, suo malgrado, ad addormentarsi nei posti più disparati, perdendo conoscenza. Questi sono i momenti migliori anche a livello registico: dei veri e propri buchi in cui lo spettatore, assumendo il punto di vista di Phoenix, non ha idea di che cosa sia successo.

 

 

Leone d’Oro e premio alla miglior interpretazione femminile a Venezia 1993, più un discreto numero di altri premi. Questo è il bilancio per Tre colori: Film blu, pellicola d’apertura della cosiddetta Trilogia dei Colori di Krzysztof Kieslowski, ispirata ai colori e agli ideali della bandiera francese. Il film è un delicato viaggio nell’interiorità della protagonista, costretta ad affrontare un lutto cercando di continuare a vivere. Dopo la dissoluzione violenta della sua famiglia, Julie si trova a ricadere in una sorta di assenza di sentimenti, mentre si appiglia disperatamente al tentativo di cancellare il suo passato di moglie e madre. Tutte le situazioni che Kieslowski mette davanti allo spettatore trasmettono con forza la sensazione d’inedia emotiva che la protagonista si trova a vivere, fino al momento in cui avrà finalmente la forza di compiere una scelta e di optare per l’attaccamento alla vita. La pellicola è ovviamente costellata di motivi iconografici che si ricollegano al colore del titolo, come la piscina in cui Julie si immerge continuamente, ritrovando per un momento la capacità di vivere.

 

 

Non è comune, ma a volte accade che anche le nuove generazioni vengano giustamente riconosciute come degne di riconoscimento. Per far sì che ciò avvenga è però necessario che riescano a incunearsi in prodotti di qualità, capaci di convincere in maniera opportuna i critici e il pubblico. Se oggi il successo di commedie demenziali e senza alcun valore visivo come Fuga di cervelli, riuscita a sbancare solo grazie alla presenza di web star molto amate, ci fa storcere il naso, possiamo consolarci pensando al 1997, quando Ovosodo di Paolo Virzì riuscì a riscuotere un ottimo successo sia a Venezia che fuori, con il suo cast di giovanissimi. Racconto di formazione, il film prende il nome da un quartiere di Livorno e racconta la vicenda di Piero, dalla nascita all’età adulta, in maniera divertente ma non sciocca. Commedia misurata e interessante, il film riesce addirittura a inserire senza forzature all’interno della trama un bello spaccato dell’Italia che cambia, delle sue idiosincrasie e delle sue caratteristiche. Paolo Virzì è oggi uno dei più interessanti registi italiani e il suo lavoro con Ovosodo è stato vincente perché ha scelto in maniera saggia di non forzare troppo la mano ma di creare un mix interessante fra le varie caratteristiche della comicità italiana.

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