A Pierino Persico l’autoironia non manca. Dice che lo tengono ancora in azienda (nel board resta il presidente) perché le Rsa di Albino non lo prendono e che, se fosse per lui, sceglierebbe un bivacco in montagna, luogo che ama incondizionatamente, tanto da scalare ancora pareti impegnative sulle Dolomiti.
Partiamo dalla sua titubanza iniziale per questa intervista.
«Quello che ho passato è ormai archeologia. Il mondo è cambiato. Stiamo vivendo un passaggio generazionale. L’azienda la stanno mandando avanti i miei figli, con tanto di lauree e master. Il Pierino Persico è restato al bergamasco in una realtà dove come minimo si parla inglese. Adesso, sono loro i protagonisti: Claudia, Alessandra e Marcello Persico. Sono loro che sono in trincea. Le interviste occorre imbastirle con loro. Quello che stanno affrontando è un mondo molto più difficile del mio, dentro nel vortice di cambiamenti epocali».
Cita laurea e master. Lei, con le sole scuole serali, ha gettato le basi un impero di circa mille dipendenti, 550 solo a Nembro, con un fatturato di 250 milioni di euro e un margine industriale intorno al dieci per cento.
«Erano tempi diversi. Se si voleva aprire un’attività tutto era molto più semplice, c’erano meno regole. Dove sono partito io, ai “Carocc di Albino”, oggi non mi darebbero neanche più il permesso di aprire nessuna attività artigianale, lì in centro al paese. Oggi, lavorando con tutto il mondo (proprio adesso di sopra negli uffici c’è un manager della Tesla), occorre un bagaglio di conoscenze che cinquant’anni fa era impensabile. I contratti che siglano i miei figli (io non vedo un contratto da anni) sono studiati prima dagli ingegneri e poi dagli avvocati per evitare fregature».
Però è giusto rivendicare un’impronta molto chiara che porta il suo nome. Non è d’accordo?
«Diciamo che ho gettato un seme di passione, serietà e un rapporto coi dipendenti come se fossero partner. E lo stesso vale con i clienti».
Se fanno tutto i figli, qui in azienda lei cosa fa?
«Controllo i bagni. È importante, sa. L’ambiente dove si lavora deve essere bello e luminoso. Noi realizziamo cose belle e i luoghi in cui le realizziamo devono far sentire bene le persone che ci lavorano. Per noi le persone assunte, belle teste e belle mani, sono importantissime: devono avere passione e sentire che stanno realizzando qualcosa che è stato pensato e vissuto intensamente. I nostri lavori hanno un’anima. Io sono partito dai modelli in legno: ogni pezzo era come una scultura, un’opera d’arte».
Quando assumeva, cosa guardava in chi aveva davanti?
«Al di là delle competenze, guardavo la faccia».
Ha mai preso una cantonata?
«Eccome, anche con i figli degli amici. Però, nella maggior parte dei casi, ci ho preso. Comunque ho sempre dato fiducia e responsabilità, insieme a qualche dritta. Sempre in un clima di coinvolgimento».
Da apprendista lei è stato pagato poco. Da imprenditore, qualcuno le ha mai contestato che le paghe fossero basse?
«Nessuno si è lamentato, ma le paghe sono basse. Se le alziamo siamo fuori dal mercato. L’azienda non è la San Vincenzo. Se chiedo di più ai miei clienti, perdo il lavoro. Dai cinesi, nel settore dell’automotive, subiamo una concorrenza paurosa (…)