Un omaggio

Di Longaretti sono diventato amico

Di Longaretti sono diventato amico
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In tanti anni di giornalismo ho intervistato molte brave persone, veri signori. Con alcuni di loro sono rimasto in contatto, in ottimi rapporti. Di Trento Longaretti sono diventato amico. Anche perché era facile diventargli amico: era una persona accogliente, disponibile. Quando una persona muore si tende a santificarla, lo so, e quindi questo articolo verrà magari letto con incredulità. Ma quello che scrivo è vero. Di interviste a Trento Longaretti ne ho fatte diverse, in svariate occasioni. Le ultime per i suoi cent’anni. L’ultimissima si intitolava I cento Natali del pittore” e venne pubblicata nel Natale scorso. Ogni volta che usciva un’intervista, o soltanto un pezzo, anche piccolo, dedicato a lui, Longaretti prendeva il telefono e chiamava per dire grazie. Altrimenti mandava un biglietto autografo di ringraziamento, spedito per posta. Ogni volta diceva che era felice di quello che aveva letto e che non era il caso, che lui non lo meritava. Ogni volta. Perché ci credeva davvero. Longaretti si sentiva un artigiano, un bravo artigiano, nulla di più, e l’interesse che la città e il mondo dell’ar te mostravano per lui lo stupiva.

 

 

L’ultima intervista fu faticosa per Trento. Aveva compiuto i cento anni il 27 di settembre ed era in forma. Ma dopo tutti quei festeggiamenti, dopo quella serata indimenticabile al Museo Diocesano, aveva perso smalto. Forse perché si erano spenti i fuochi di artificio del centenario, forse perché si era riacutizzata una fastidiosa bronchite, Longaretti ha cominciato a fare fatica. Però un giorno mi invitò ancora alla Trattoria del Teatro, su in Città Alta. A Longaretti piaceva la buona cucina. E piacevano i ricordi, sebbene non fosse un nostalgico. La prima volta che mi invitò alla trattoria del Teatro fu cinque anni fa. Mi disse: «Ti invito a mangiare polenta e brasato all’osteria degli Immortali». E poi mi spiegò: «Quando ero molto giovane, erano gli Anni Trenta, studiavo a Brera, ma ero in contatto anche con degli artisti bergamaschi grazie a un mio conterraneo di Treviglio, più anziano di me. Loro si trovavano in Città Alta, alla trattoria del Teatro Sociale, un luogo allora molto umile, come molto umile era tutta Città Alta. C’era Alberto Vitali, c’era un Locatelli, l’Ermenegildo Agazzi, il Quarti Marchiò… insomma, erano in diversi, forse anche il restauratore Pelliccioli. Sul tavolo dove si riunivano avevano scritto “Osteria degli Immortali” perché l’arte è destinata a durare nel tempo e quindi li rendeva immortali. Si discuteva di arte e di vita in quegli incontri davanti a un piatto di polenta».

 

 

Poi Longaretti mi disse: «La trattoria del Teatro dopo il restauro del Sociale, negli Anni Ottanta, si è trasferita in piazza Mascheroni e quella scritta l’ha conservata. Non è più il posto bohémien di quei tempi, ma è comunque una trattoria dove si mangia benissimo. E la signora che serve ai tavoli è sempre la stessa. Negli Anni Trenta si chiamava Gioconda, adesso ha cambiato nome, ma è la stessa». Questa faccenda della signora che serve ai tavoli profumava molto di mistero. Così fui onorato di accettare l’invito. Il brasato si rivelò una delizia e Trento mi raccontò tante cose. Naturalmente ci sedemmo al tavolo dove si trovava il quadro con la vecchia scritta degli artisti: “Osteria degli immortali”. Il brasato ci fu servito da una signora vestita con un grembiule nero, molto educata, asciutta come una buona bergamasca, di età indefinibile. Trento mi disse che era identica alla Gioconda, la signora di quegli anni lontani. Mi offrì altre volte polenta e brasato. L’ultima volta aveva problema con i denti, così lui optò per una polenta e funghi e io gli andai a ruota. Erano talmente buoni che rischiai di farne indigestione.

 

 

L’ultima intervista era stata quella di Natale. Era stata un’intervista faticosa perché Trento aveva il respiro corto, i bronchi non facevano giudizio. I cento natali del pittore. L’ultima volta che abbiamo parlato bene è stato un mese fa, il pittore era ricoverato alla Palazzolo. Mi ha detto che aveva voglia di tornare a casa, che aveva in testa tante nuove immagini e che non vedeva l’ora di dipingerle. Ho pensato che allora forse ce l’avrebbe fatta anche questa volta, nonostante i cento anni. Ma non è andata così, questa volta è stato il limite a prevalere sulla forza della vita. Trento Longaretti era un uomo di profonda fede cristiana, non mancava mai alla messa domenicale. Fra i suoi ammiratori c’erano anche Kofi Annan, segretario generale dell’Onu, e Papa Paolo VI, che aveva voluto alcune sue opere in Vaticano. Nei suoi dipinti la profonda umanità del Cristianesimo si avverte in maniera distinta. Quelle famiglie povere, sempre in cammino in paesaggi colorati e scarni, sotto un cielo dove brillano le lune. C’è qualcosa di fiabesco nei suoi dipinti, che si stringe al dolore e alla malinconia dell’umanità. E al senso di speranza che viene da quel procedere insieme, magari con le proprie carabattole, dove non manca mai uno strumento musicale.

 

 

Ma chi sono quei vecchi, quei bambini, quelle famiglie in cammino? Trento non rispondeva subito, fissava un punto con gli occhi e poi cominciava parlando piano. Erano i profughi della Siria, certo, erano i profughi dell’Istria e della Dalmazia e del Darfur e della Palestina. Erano i vagabondi che il piccolo Trento incontrava nelle vie di Treviglio in quei lontani anni Venti. Erano i suonatori di organetto e di cornamuse che venivano a fare il concerto fuori dalla casa e dalla bottega di suo padre maniscalco. Era il viaggio degli uomini che camminano sempre in una direzione, ma che in realtà non sanno dove stanno andando. Ed è un viaggio costellato di lune misteriose, dentro a un universo che in effetti è un meraviglioso enigma.

Cominciai ad ammirare davvero la pittura di Trento Longaretti con la mostra antologica a Palazzo della Ragione che si fece mi pare per i suoi novant’anni: allora lessi lo sviluppo della sua poetica, l’evoluzione negli anni, la coerenza nei dipinti che si somigliavano molto, ma che in realtà non erano mai gli stessi e nel tempo si erano via via trasformati. L’ultima intervista di Natale. Trento mi parlò soprattutto dei suoi natali di bambino. L’immagine di suo padre che faceva il presepio, della ricerca del muschio. Il ciocco nel camino che doveva bruciare per tutta la notte perché arrivava Gesù Bambino e doveva trovare un luogo dove scaldarsi. La povertà, la dignità di quella casa con papà, mamma e quattordici figli. Il calore del focolare. Trento oggi era benestante, abitava in una bella casa in Borgo Canale, ma rimpiangeva l’essenzialità di quegli anni. Amava le cose belle, ma non il superfluo, non l’esagerazione. Non l’ho mai sentito criticare nessuno - per davvero - e cercava sempre di capire le ragioni dei comportamenti.

 

 

C’era una cosa che non accettava e credo lo addolorasse: la trascuratezza con cui le accademie, le scuole, trattano la pittura, come se fosse diventata la cenerentola dell’arte. Trento invece nella pittura - nella sua capacità di comunicazione profonda - ci credeva, eccome! Longaretti se ne è andato, come lo scorso anno monsignor Loris Capovilla, alla stessa veneranda età, cento anni. Due grandi maestri che ci lasciano lo sgomento della solitudine, ma che nelle mani ci consegnano il loro testimone. Profondità di pensiero, uomini che non sono stati reticenti, ma che hanno accettato di calarsi interamente nel mondo, nell’anima del mondo. Generosità. E, soprattutto, speranza. Ancora una volta, monsignor Capovilla avrebbe detto «Tantum aurora est». E Trento Longaretti avrebbe annuito pensoso.

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