L'ultimo mulino di Alzano Lombardo, dove Mario Licini macina ricordi
Il suo trisavolo Giuseppe detto “Bono” lo acquistò nel 1844. Passò al figlio Angelo, poi a Giuseppe. «Mio padre Arturo proseguì. Nel ’67 ne diventai proprietario». «Vivevamo nell’appartamento sopra, ci stavamo in venti. Tanta polenta». La farina veniva distribuita in tutte le case con gli asini
di Elena Conti
A Nese c’è un luogo dove il tempo sembra essersi fermato. Le macine sono ancora al loro posto, nei setacci c’è ancora qualche traccia di farina e l’imponente ruota di ferro sembra che debba ripartire da un momento all’altro, mossa dal flusso dell’acqua e scaricata poi nel torrente Nesa. L’ultimo mulino di Alzano, detto “il mulino del Bono” dal nome di chi lo gestiva, è un pezzo importante della storia del paese, oggi tramandata da un trisnipote.
«Il mio trisavolo - spiega Mario Licini - si chiamava Giuseppe Licini, detto “Bono”; acquistò questo mulino nel 1844, ho conservato alcune carte che lo dimostrano. Precedentemente ne possedeva uno a Monte di Nese, più piccolo; presumo abbia comprato questo per espandere l’attività, sebbene ai tempi Monte di Nese fosse un paese importante da dove passava la via Mercatorum. Dopo di lui il mulino passò al figlio Angelo Licini, e poi a suo figlio Giuseppe, cioè mio nonno. Mio padre Arturo proseguì l’attività di famiglia al mulino, anche se negli ultimi tempi, per la mancanza di lavoro, produceva farina solamente per i nostri animali. Morì nel ’67 e io ne diventai proprietario. Per nove anni continuai a farlo funzionare, ma nel frattempo lavoravo anche come muratore. Poi l’ho chiuso nel 1976».
Mario Licini non possiede soltanto le chiavi del mulino, ma anche dei ricordi bellissimi fatti di duro lavoro e di nuvole di farina bianca e gialla. «Quando ero piccolo - continua -, al rientro da scuola, dovevo aiutare il papà a tenere aperti i sacchi per riempirli di farina. C’erano sempre 3 o 4 persone che lavoravano al mulino, tra familiari e aiutanti. La mia famiglia viveva dei proventi di questo mulino, a casa nostra c’era farina in abbondanza. Mia mamma infatti preparava porzioni abbondanti di polenta, di cui si cibavano anche i nostri maiali; noi rubavamo i fiocchi di farina che si formavano sui mucchi, erano deliziosi. Vivevamo nell’appartamento sopra il mulino, ci stavamo in venti. Poi c’erano le stanze adibite a magazzino, dove i contadini portavano grossi sacchi colmi di granturco e frumento. Ai tempi tutti li coltivavano, qui nei dintorni c’erano solo campi e di fronte al mulino, dall’altra parte del torrente, anche un rigoglioso vigneto con diverse piante da frutto».
«Il mulino possedeva, e ancora oggi sono ben visibili e conservate, due grosse macine, una per il granturco e una per il frumento. Nel magazzino c’erano grosse vasche nelle quali venivano rovesciati i chicchi di frumento e granturco in due bocchettoni separati; i chicchi finivano nella macina giusta e venivano triturati. Poi passavano ai setacci, dove si separava la farina dalla crusca. La farina veniva raccolta in grossi sacchi di iuta da 101 kg (1 kg corrispondeva al peso del sacco), che venivano caricati a spalla e trasportati in cima alle scale. Lì poi venivano caricati sui carretti, sugli asini e più avanti sui camion. Ogni giorno producevano qualche quintale di farina bianca e gialla».
E dal mulino del Bono la farina veniva trasportata e distribuita in tutte le case. «Papà la portava in tutta Nese con gli asini - prosegue il signor Mario - e si spingeva a Monte di Nese, ad Alzano e a Ranica. Avere gli asini e i carretti era un vantaggio, infatti oltre a trasportare la farina rivendeva anche cemento e sabbia, portandoli ovunque ci fosse bisogno. Se c’era qualcosa da trasportare, si rivolgevano a lui».