L'uomo che ha scoperto Paloschi

«Ah, immagino già il primo gol a Bergamo: gli scoppierà il cuore dalla felicità». Diario di un bomber sentimentale. Che è poi la storia di Alberto Paloschi, il ragazzo di Cividate al Piano arrivato all'Atalanta con il sorriso lungo e la bocca larga, con l'aria umile e gli occhi che brillano. Diario di bomber sentimentale. Perché, assicura Paolo Bertani, 55 anni, uno degli osservatori del Milan tra l'Italia e l'Europa, allenatore, istrione, ex giocatore, educatore severo (ma giusto), filosofo della panca, vecchio lupo di mare con l'aria malinconica, «io Alberto lo conosco bene». Lo prese in rossonero che era picinì, piccolino, alto così, «ma le qualità si vedevano subito al punto che nemmeno lo volli rivedere come facevo con gli altri bambini: andai dai genitori e gli dissi: "Alberto lo voglio qui"».
Diario di un bomber sentimentale. E bisogna scorrere qualche pagina all'indietro, tra i ricordi e gli aneddoti, i gol e le esultanze da strillone, per raccontare il Paloschi tra le righe, quello vero, sincero, che forse non ti aspetti. «Malgrado sembri così spavaldo nel gioco - racconta Bertani - quando non faceva gol a fine partita lo vedevo piangere. Magari una partita vinta 4-0. Perché il gol per lui è un obbligo, una vera ossessione. In qualsiasi partita. Amichevole, campionato, o torneo. Adesso è cresciuto, non è più un ragazzino. Ma quella voglia, quella grinta, quel bisogno di regalare gioia credo gli siano rimasti dentro».

AC Milan Alberto Paloschi celebrates after scoring against Sampdoria during their Italian Serie A soccer match at San Siro stadium in Milan, March 19, 2008. REUTERS/Stefano Rellandini ( ITALY )



Capitolo uno: come lo trovò?
«Io sono venuto su nel Milan come giocatore e in quel periodo facevo il responsabile dell'attività di base. Pescavo talenti. Alberto me l'avevano segnalato. Era il 2001. Ci allenavamo sui campi di Linate. Alberto arrivò in una fredda sera di dicembre per il provino. Da un paio di mesi si allenava con la maglia dell'Atalanta, ma non erano del tutto convinti di prenderlo».
Lei invece si convinse subito.
«Dopo mezz'ora di allenamenti mi aveva talmente impressionato per la sua dinamicità, per il suo modo di giocare, che chiamai i genitori a fine partita e chiusi subito la pratica. Magari ho rischiato, ma alla fine ci ho visto giusto. Prima amichevole contro il Piacenza, quattro gol. Niente male».
Lo allenò?
«Eccome. Al tempo facevo la squadra, quella era dei '90. Alberto l'ho allenato tre anni. Lui era legatissimo a due partite. Il derby contro l'Inter. Ecco, lì l'ho visto piangere di gioia. E poi le partite contro l'Atalanta, troppo speciali per lui. È innamorato dell'Atalanta».
È l'uomo giusto per l'Atalanta?
«Direi di sì. Io a Bergamo ci vengo spesso. Quello dell'Atalanta è uno stadio bellissimo, con un tifo eccezionale, caldo, un tifo vero. Alberto è uno che vive di grandi emozioni. È un sentimentale. Si commuove, ha una grande sensibilità. Perché è un ragazzo intelligente. Bergamo per lui vale molto, sta realizzando un sogno, e secondo me può fare la storia di questa società».
Non ci dica che abbiamo trovato un giocatore con dei sentimenti.
«L'anno dopo il suo arrivo al Milan, a Natale, regalai una foto a ogni mio bambino, una loro foto con la maglia rossonera addosso. Ad Alberto feci la dedica, gli scrissi che le grandi doti di umiltà e le sue capacità lo avrebbero portato a essere un uomo e un calciatore. So che quella foto la conserva ancora. Alberto se la porta nel cuore, lo aveva anche raccontato ai giornali dopo il gol all'esordio in A».
Sta avendo la carriera che si merita?
«È uno che fa la A da sempre, e l'ultima esperienza all'estero lo avrà fatto crescere ancora di più. Forse sono di parte, ma per me è un top player. Uno che fa gol con quella frequenza è da prima fascia. Alberto è uno che può stare stabilmente in nazionale».




Diceva dell'estero. Perché la Premier?
«Non ne abbiamo parlato. Ma il campionato inglese è affascinate, ricco di calore, è andato lì con l'intento di calarsi in un calcio emozionale. Ne sono sicuro. Adesso, credo, l'Atalanta rappresenta un punto di arrivo».
Lo ha più sentito?
«L'ho risentito anche al Chievo. Abbiamo parlato del papà, della mamma e del suo fratellino. Alberto è un ragazzo con un attaccamento alla famiglia, ha il senso dei valori. Anche queste sono cose che uno deve valutare. Sono quarant'anni che faccio questo lavoro, che vedo giocatori. Ho scoperto De Sciglio, Verdi, Fossati, anche Darmian l'ho avuto io. Alberto è tra i ragazzi a cui tengo di più».
Come si riconosce il talento?
«Un po' è anche la storia personale. Io, per esempio, sono arrivato al Milan che avevo otto anni, andai via che ne avevo diciotto. Sono cresciuto con Liedholm. Zagatti, Galbiati, Carletto Annovazzi. Maestri. Ci vuole una buona scuola, e poi l'intuito. Perché qualche merito me lo prendo, o no? Bisogna riuscire a non vedere il giocatore bravo, quello lo vedono tutti. È in prospettiva che conta».
Per gioco: chi avrebbe voluto scoprire?
«Baggio. Che qualità stupende, che giocatore. Il mio idolo però era Rivera. Ma sono tanti. Vengono in mente i Messi, i Cristiano Ronaldo. Il difficile è pensare agli altri. A giocatori che vanno formati. Come Paloschi, per esempio».
L'esordio in A di Alberto se lo ricorda?
«Me lo ricordo benissimo, contro il Siena, gol dopo pochi secondi. Mi ricordo la soddisfazione per aver contribuito a farlo essere lì. Sceglierli e basta è un conto. Ma sceglierli e poi costruiti, allenarli qualche anno, è diverso. I giovani vanno formati. De Sciglio, per esempio, quando ha fatto l'esordio in Champions League alle 2 di mattina ha mandato un messaggio lunghissimo e ricco di sentimenti».
Com'è lo stato del calcio italiano per i giovani?
«In Italia siamo un po' vecchi, un po' indietro. Negli ultimi due anni ho girato molto l'Europa. In Francia, per dire, in Ligue1, giocano i '98, i '97. Giovani veri. In Italia si ha paura di buttarli dentro in Interregionale. Ma il calcio è dei giovani, non dobbiamo dimenticarlo».
E adesso di chi è?
«Si pensa più al business. E poi l'attenzione è rivolta molto alla tattica, meno alla tecnica. Mi ricordo il grande Milan che prima di partire da Linate si allenava sui campi vicini all'aeroporto. Gullit e Van Basten prendevano la palla e stavano lì a fare il muretto. Interno, collo, esterno. Interno, collo, esterno. Un'ora di palleggi contro il muro. Curavano tanto anche questo aspetto».
Paloschi quanto ne ha fatto di muretto?
«Ne ha fatto tantissimo. Ha lavorato molto per essere al punto in cui è. Ma poi, onestamente, le cose sono anche più semplici...».
E come sono?
«Se un giocatore è forte, che abbia sedici, diciassette o diciotto anni non importa: deve giocare al livello che merita. Punto e basta. Se uno è forte come Paloschi perché deve stare in panchina?».