Vita e opere di Mino Scarsèla (al secolo Giacomo Tasca), un vero bergamasco
Salumiere, agente di commercio, camminatore, fotografo, alpino, nelle sue poesie semplici ha raccontato la storia di tutti i giorni. Diceva: «La ergògna l’è fàga del mal a la zét»
di Ezio Foresti
La serendipity è la facoltà di fare scoperte felici per puro caso, e a volte capita di sperimentarla in prima persona. Così è avvenuto per il mio incontro con Giacomo Tasca, alias Mino Scarsèla, una figura di bergamasco poliedrico che nella sua vita ha fatto di tutto, percorrendo un itinerario che più orobico non si può. Salumiere, rappresentante, camminatore, fotografo, suonatore di armonica a bocca, viaggiatore, sempre con quella brasca che cova sotto la cenere del nostro carattere. Ma è meglio procedere con ordine.
Chi non cerca trova. Tutto ha inizio con Nino Mangili, mio suocero, infaticabile ricercatore di libri, documenti e lettere personali legati alla nostra gente e alla nostra lingua. Un giorno, tra una rara edizione del vocabolario di Zappettini, una raccolta di poesie di Abele Ruggeri e una serie di cartoline d’epoca, mi porta una selezione di poesie con fogli spiralati che per un po’ rimane nel mucchio delle “cose da leggere”. Fino a che l’occhio mi cade sullo pseudonimo dell’autore, Mino Scarsèla, e sul suo vero nome, Giacomo Tasca. Il gioco della traduzione è divertente e decido di approfondire la conoscenza del personaggio e delle sue opere. Scorrendo le sue poesie scopro un mondo che è il nostro, una documentazione sobria e a volte ironica di eventi, insieme a impressioni e sensazioni che un po’ tutti abbiamo provato. D’altronde la sua filosofia è molto semplice, lui vuol raccontare “la stòria de töcc i dé, meticc zó ‘n bergamàsch, co la speransa che a ergü i pöde piàs”. Un minimalismo che lo rende subito simpatico, e lo avvicina al tipico carattere della nostra gente. Incuriosito, svolgo alcune ricerche in Internet e scopro che, purtroppo, il Mino Scarsèla è stato portato via dalla Covid-19, a marzo. Classe 1934, è scomparso pochi giorni prima di mio suocero, nato nel 1935. È il segnale definitivo che la ricerca va approfondita, ma deve succedere ancora qualcosa. Venerdì 25 settembre pubblico su Prima Bergamo un breve articolo su Mino Scarsèla, come tributo alla persona e al poeta. Inaspettatamente, ricevo una mail dal figlio Stefano che scrive, tra l’altro, «da lassù avrà sicuramente apprezzato e ne sarà sicuramente orgoglioso e felice». Penso che ridare visibilità e voce a chi non l’ha più, cercando di ricostruire la memoria di chi è stato spazzato via dall’epidemia che ha falcidiato il nostro territorio, sia più che una semplice operazione di recupero. È un dovere, che serve per tramandare stralci di vita che potremmo considerare esemplari.
Dal Campanone all’aeroporto. Mi metto in contatto con Stefano e ricostruisco insieme a lui tutte le tappe dell’esistenza di Mino Scarsèla, che sembrano il racconto di un’intera generazione. Giacomo Tasca nasce in Città Alta, a due passi dalla Pasticceria Cavour, in via Gombito, e da ragazzo frequenta il Seminarino, “riferimento tradizionale per la gioventù di Città Alta”. Amerà il cuore antico di Bergamo per tutta la vita ricordandolo nei suoi versi, come quelli dedicati alle campane che scandiscono, o scandivano, la nostra giornata: la matina i me dà la svéglia, a mesdé quando gh’è de maià e la sira per dà la buna nòcc. Non può mancare il riferimento al Campanù che töcc i dé, con d’ü baciòch de tri quintai, a l’bat i sènto cólp.
Nel frattempo si dà da fare, e sin da ragazzo lavora come garzone in una bottega di salumiere, diventando poi agente di commercio per aprire infine un’attività in proprio, in via Ruggeri da Stabello. Sarà forse il nome del nostro poeta della Val Brembana a far scattare in lui la scintilla dell’arte? Non lo sappiamo, ma la sua particolare visione del mondo si esercita anche nel paese dove si è trasferito, Grassobbio, che lui definisce “ü paìs meravigliùs”. E lo dice con cognizione di causa, perché ci arriva attraverso nove traslochi, o meglio, San Martì. A chi lo critica per la scelta, affermando che andare a vivere in quel paese è come ‘ndà a l’infèren, ribatte che Grassobbio è ü paìs zùen, pié de s-cècc, al punto tale che si chiede se la cosa sia dovuta al fatto che “in chèsto paìs a s’vedìa mia la televisiù”. E il tanto vituperato rumore degli aerei? Nessun problema, perché “só nassìt sóta ol campanù del dòm, e surd só mia dientàt”.
Non c’è nemmeno bisogno di chiedere in che corpo avesse fatto il servizio militare. Alpino vero, non perdeva un raduno, spesso accompagnato dalla moglie, e nella sua bara ha voluto il cappello con la piuma, chèl bèl capèl co la pèna che töcc nóter a m’và orgogliùs. Persino quando, ormai in pensione, viaggiava l’Italia in camper insieme all’amatissima Carolina, detta Carla, non mancò di partecipare a un’adunata in Sicilia. Dell’alpino aveva il passo e l’amore per la montagna, che lo portava a percorrere spesso gli itinerari dei nostri rifugi, e partecipava anche a gare di regolarità podistiche. Un’abitudine che ha conservato fino all’ultimo quando, approfittando di un momento di distrazione della badante che lo seguiva per problemi di Alzheimer, fuggì di casa e venne ritrovato dopo poco tempo a Seriate.
A completare il quadro della sua personalità manca un altro tocco che ci accomuna, la generosità nascosta sotto una scorza spesso ruvida e scostante. Il Mino era un volontario che prestava la sua opera all’Associazione Ruota Amica, attiva ancora oggi. Naturalmente l’ha descritta in più poesie, cambiandone il nome nel bergamasco Rödamisa. Descriverla è facile, è un’istituzione fàcia per chi gh’à bisògn, che con il pulmino o l’automobile in dotazione accompagna la zét ‘ndóe la gh’à de ‘ndà.
Una semplicità di linguaggio che riflette quella dell’atteggiamento, privo di ogni sofisticazione, e un approccio diretto che però non esclude la meticolosità, anche questo un tratto distintivo della nostra gente. Da salumiere aveva una vera e propria fissazione per la qualità, e affrontava lunghi viaggi per assicurarsi i migliori insaccati, solo oltre un certo grado di stagionatura. Il suo rigore professionale l’ha anche portato a vincere un riconoscimento nazionale. Per lo stesso motivo quando ha iniziato a scrivere in bergamasco ha cercato di documentarsi per non commettere errori di ortografia, acquistando vocabolari e altri testi che lo potessero aiutare. Se qualche accento nelle sue poesie non è perfetto, o qualche parola non è scritta nel modo giusto, è perché non ha mai voluto scrivere con il computer, e la trascrizione dei nostri accenti e delle nostre dieresi non è sempre semplice. Scriveva però con una calligrafia ordinata ed elegante, con una nobiltà d’animo che gli ispirava dediche come quella sul frontespizio della sua raccolta: “Alla signorina Giusi, con rispetto, stima e simpatia”. Quello che il Mino riservava agli altri, a tutti gli altri.
Una questione di rispetto. Se si dovesse isolare un valore che più di tutti ha ispirato la vita del Mino Scarsèla sarebbe senza dubbio il rispetto, esercitato senza distinzioni sulle persone e sulle cose. Il figlio Stefano ricorda che il padre, di carattere mite, lo rimproverò con un ceffone il giorno in cui, per una dimenticanza, scordò di salutare un anziano conoscente. Perché, come scrive, i suoi genitori gli avevano insegnato che, quando si incontra i persune ègie chi camina söl marciapé, mè dàga ‘l pass e salüdài, per ol rispèt de la sò età. Insegnamenti elementari, ma scolpiti fino in fondo all’anima.
Genitore burbero ma affettuoso, gli bastava uno sguardo per farsi obbedire, ma quando serviva «prendeva su la macchina e ti accompagnava a fare un giro», per capire che cosa c’era che non andava e, se possibile, risolvere il problema con l’aiuto dell’esperienza. Senza tanti fronzoli o discorsi inutili, era vicino quando contava davvero. E quando i figli si appropriavano di un oggetto dei compagni di gioco, li ammoniva così: Se ü laùr l’è mia tò, l’è mia tò. A s’domanda prima de tocà. Chiedere prima di toccare le cose d’altri, un richiamo al decimo comandamento che recentemente suonerebbe persino esagerato. Ecco perché il Mino afferma che in chi tép là ol mónd l’éra piö sà, e chissà che non avesse ragione.
Un altro pilastro della sua filosofia esistenziale era la responsabilità. Bisogna avere il coraggio delle proprie azioni, non lanciare il sasso e nascondere la mano perché la ergògna l’è fàga del mal a la zét, c’è da vergognarsi quando si fa del male, e non quando, magari sbagliando, si difendono le proprie idee. Un monito che non ha perso la sua attualità.
Un amore per la vita. Conosciuta öna matina de mas, Carolina (ma tutti la chiamavano Carla), accompagnò il Mino Scarsèla finché visse. Era una quindicenne a la buna, cóme s’dis, a l’aqua e saù. La semplicità, ancora una volta, e il tipico understatement bergamasco: l’éra ol tipo che l’se fàa mia notà.
In contraddizione con la scarsa propensione bergamasca per le chiacchiere, la ragazza a sèntela ciciarà la piasìa, era un piacere sentirla parlare, forse perché s’capìa che l’éra mia öna stüpidina. Inizia così una relazione che durerà a lungo, ma prima viene collaudata con un periodo in cui i due innamorati hanno comensàt a frequentàs per conòsses mèi, con una prudenza e una lentezza direttamente proporzionali alla solidità del sentimento.
Quel giorno di maggio diventa ol dé piö fürtünàt de la mé éta, la simpatia diventa amore, senza fretta. Il fidanzamento dura cinque anni, e poi il matrimonio. La mé Carla, come la chiama, lo aiuta a sopportare i momenti più duri, mette al mondo i suoi figli e si dedica alla famiglia con tutte le sue energie: se l’èss pödìt, l’avrèss compràt ol sul quando l’gh’éra mia. I due solcano insieme le acque della vita, riescono a festeggiare i cinquant’anni di matrimonio, si godono la pensione percorrendo in camper le strade d’Italia. Poi succede qualcosa, e una malattia breve e feroce stronca la compagna di una vita. Per Mino scende il buio, qualcosa si spegne dentro di lui. Ma si consola pensando che alla fine con tè mé so sèmper sentìt ön òm fürtünàt.