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«Non sono matto, voglio farvi felici» Due chiacchiere con Gasperini

«Non sono matto, voglio farvi felici» Due chiacchiere con Gasperini
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Domenica 2 ottobre, Bergamo ha vissuto una grande gioia. Tutto merito di un uomo solo al comando, Gian Piero Gasperini. Il tecnico dell’Atalanta è passato, in pochi giorni, dall’essere un dead man walking a salvatore della patria.

Ci dica la verità mister: quanto era contento dopo Atalanta-Napoli?
«Moltissimo. È stata una grandissima soddisfazione. Si era creata una situazione complicata. Soprattutto a livello personale. Per la squadra, per la società e per l’ambiente credo che la vittoria sul Napoli possa segnare una svolta».

Quando abbiamo visto la formazione, abbiamo pensato che lei fosse matto...
«Questa cosa me la disse anche il presidente Percassi prima del match con il Crotone. Alla fine mi ha confidato: “Mister, quando ho visto la formazione ho pensato che lei fosse matto”. Poi mi ha fatto i complimenti. Sabato gli ho detto chi avrebbe giocato, non ha fatto commenti. Dopo mi ha confessato che alle 4 era ancora sveglio perché temeva di prendere 4-5 gol».

 

 

E lei come ha vissuto l’attesa?
«Sapevo sarebbe stato difficile vincere, con qualsiasi formazione. Non abbiamo fatto chissà cosa a livello di classifica, il campionato è ancora lungo, ma abbiamo dato un segnale forte. Era quello che serviva».

Una vittoria determinante.
«Se avessimo perso, magari di misura e giocando bene, sarebbe stato comunque un problema. Per la situazione che si era creata, ormai non passava più nulla. Era solo un continuo evidenziare aspetti negativi. Adesso invece c’è una strada molto chiara da percorrere».

Alla fine ha detto: sono contento di aver fatto felici i bergamaschi.
«Sì, perché c’era una pressione pazzesca. Sembrava di essere alle ultime settimane di campionato. Ho percepito addirittura paura, timore di non farcela. Adesso vedo consapevolezza invece».

Non riusciamo ancora ad inquadrarla bene, certamente lei ha dimostrato grande coraggio.
«Non so se chiamarlo coraggio. Nella vita ho tanti dubbi ma anche alcune convinzioni forti. Ed è su queste che ho costruito la mia carriera».

 

 

Una è che i giovani siano meglio dei vecchi?
«No, ma se hai un giovane bravo devi farlo giocare, dargli fiducia. Non bisogna tarpargli le ali. Nel calcio, ma anche nella vita di tutti i giorni, c’è molta severità verso i giovani e meno nei confronti di chi è più maturo. C’è poca propensione ad aiutarli».

A Bergamo non eravamo abituati ad uno come lei, che in conferenza stampa è schietto e diretto. Come nel caso Sportiello.
«Credo che alla base di una squadra ci siano dei principi, tra cui un grande senso di appartenenza. È un valore che aiuta nei rapporti con la tifoseria e la città che rappresentiamo. Bisogna identificarsi con l’ambiente che ci circonda».

Quanto conosceva di Bergamo prima dell’Atalanta?
«Poco. La maggior parte delle volte ci sono passato da avversario. La scorsa settimana ho fatto una passeggiata in Città Alta, pian piano la scoprirò».

Che impressione le ha fatto?
«È una città molto vivibile, a misura d’uomo. Il rapporto con la gente è sano. Sono un tipo riservato, ma impareremo a conoscerci e il tempo renderà tutto più facile».

Ha scelto di vivere in pieno centro con sua moglie.
«Sì. In passato ho preferito stare lontano dal cuore della città, invece a Bergamo ho cambiato, sono in piena zona pedonale. È bellissimo, ma sono sempre a Zingonia».

 

 

Non riesce a vivere appieno la città?
«Ci provo la sera, ma è difficile. Conosco molti ex calciatori o persone che sono state nel nostro mondo che vivono qui vicino, ma non ho ancora avuto tempo di incontrare nessuno. Mi riprometto di andare a cena fuori, poi arrivo a casa e preferisco riposare».

Le sue radici dove sono?
«Giro da talmente tanto tempo che faccio fatica a rispondere. La mia casa principale è a Torino, lì vivono i miei figli. Ho vissuto a lungo a Genova e ho preso casa ad Arenzano. Con il mare mi succede un po’ come ai brasiliani: ho la saudade».

Della tifoseria bergamasca che ne pensa?
«Credo che ci sia una bella maturità. Ha le sue tradizioni, ha un vissuto forte e vedo un grande attaccamento alla squadra. Parliamo di tifosi localizzati tra Bergamo e provincia e questo penso sia un altro valore importante. Quando ho deciso di venire qui, una delle mie speranze era creare una piccola Bilbao».

È un progetto affascinante.
«Mi piacerebbe. Ne ho parlato subito con la proprietà. Vedendo la realtà atalantina da fuori, ho sempre avuto quest ’idea: proprietà bergamasca, tifoseria bergamasca, settore giovanile e centro sportivo radicati sul territorio. A Bilbao, fino a qualche anno fa, erano perfino esagerati. Io vorrei provare a creare un nucleo di ragazzi nati e cresciuti qui. A Torino, nelle giovanili della Juventus, l’ho fatto. Quest’idea e ambizione è stata fondamentale per scegliere Bergamo».

 

 

Un grande stimolo.
«Sì, ma la verità è che io non volevo allenare quest’anno, avevo due anni di contratto con il Genoa e avevo bisogno di riposare. Poi ho parlato con i Percassi e questa possibilità di creare qualcosa di forte mi ha stimolato tantissimo. Mi sono lanciato».

Ci dice tre aspetti del suo carattere?
(Sorride, ndr) «Faccio molta fatica a parlare di me stesso...».

È un duro?
«Ma no, solo apparentemente».

È permaloso?
«Si, molto».

È incazzoso?
«Dipende da cosa si intende, ma meno di quello che si potrebbe pensare. Sono permaloso con i permalosi, arrogante con gli arroganti, presuntuoso con i presuntuosi e con chi non stimo. Per il resto sono uno normale».

È vero che legge tutto quello che scrivono di lei?
«È una bugia pazzesca, leggo pochissimo i giornali. Soprattutto nei momenti di difficoltà, per due motivi. Prima di tutto perché tanto mi sparano solo addosso. Non sapendo cosa è stato scritto, non posso guardare storto il giornalista in questione. E lui ci resta male. In secondo luogo penso che leggere le critiche tolga concentrazione nel momento in cui serve dare il massimo per risolvere un problema».

 

 

Però ultimamente è parso molto informato...
«Ho una rassegna stampa giornaliera che sfoglio, ma leggo solo i titoli. Difficilmente vado oltre. Fa ridere perché qualcuno scrive “dovrebbe fare così”, io lo faccio senza saperlo e la persona pensa che io gli abbia dato ascolto. Non è così, io penso solo al campo».

Qual è il pericolo più grande adesso?
«C’è una bella foto in cui abbraccio Cabezas: mi piacerebbe far giocare lui come anche qualcuno dei ragazzi della Primavera, ma serve tempo. Adesso ho messo tutta l’argenteria sul banco, ma da qui in avanti bisogna lucidarla. Di buono c’è che se in futuro metterò Gagliardini o Caldara, non sarò più un pazzo».

Gagliardini su Hamsik è stato un rischio?
«Ma io non ho messo Gagliardini su Hamsik, ho messo Gagliardini in quella zona di campo. Se Hamsik si fosse spostato, non è che Roberto lo avrebbe seguito».

E Caldara titolare?
«Per me non è una novità. Al Genoa feci ancora di più con Mandragora: aveva 17 anni. Lo preferii a Kucka e fece una grande partita. A fine anno la Juve acquistò Mandragora, e Kucka di colpo maturò. A volte da uno schiaffo nascono cose positive. Io quel giorno trovai due giocatori».

 

 

Fortuna o talento?
«È un credo, la fortuna è di aver vinto. Contro il Napoli abbiamo fatto la nostra gara, ma se fosse arrivata una sconfitta sarebbe stata dura. Ero nella stessa situazione che avevo già vissuto all’Inter ed ero incazzato di riviverla all’Atalanta. Non aveva senso. Al momento giusto è arrivata un po’ di fortuna, cosa che prima è mancata. Adesso inizia davvero il campionato».

Oltre al calcio cosa le resta?
«Ben poco. Non riesco a coltivare le mie passioni. Forse perché il calcio è l’unica cosa che amo davvero. Mi piace il mare, lo sport, la natura. Non sono un grande amante della cucina, sono un cuoco disastroso. Se sono solo, esco a mangiare mentre se c’è mia moglie si mangia a casa. Anche se poi si lamenta perché dice che non usciamo mai».

L’allenatore è un uomo solo?
«Nelle decisioni sì».

È una cosa positiva o negativa?
«Per me dev’essere così. Ho tanti bravi collaboratori, ma quando devo decidere, decido io. È un atteggiamento impopolare, tutti quelli che decidono sono attaccabili. Che sia un genitore, un arbitro, un primo ministro o un insegnante. Contro chi decide c’è sempre acredine. Ma fa parte del gioco».

Lei ce l’ha una debolezza?
«Ho pregi e difetti, come tutti. Ho tante persone che mi vogliono bene ma non è semplice accettare che chiunque possa dirti che sei un incapace o insultarti».

 

 

L’Atalanta è una grande occasione per lei o lei è una grande occasione per l’Atalanta?
«Spero sia una grande occasione per entrambi. Non avevo nessuna intenzione di riprendere, tanto meno nell’Atalanta. Non fosse stato per Percassi e per il progetto, sarebbe andata diversamente. Ma è stata dura, sono finito sotto un treno e non è successo niente. Adesso posso camminare».

Non ci dormiva la notte come il presidente?
«Immagino che lui abbia avuto altrettante pressioni. Io con i Percassi non ho fatto un incontro per avere delle spiegazioni, ma per dare delle spiegazioni. Ho detto: io faccio questo, questo e questo. Ho capito dopo che era considerata una follia, per me è stata una cosa perfettamente in linea con le premesse iniziali».

Forse sta correndo troppo?
«Quando una cosa la vuoi fare, la devi fare. Potevo anche farlo prima ma ho dovuto aspettare, perché rischiavo di bruciare i giovani. Adesso, invece, sono accettati. Questi passaggi li ho fatti sulla mia pelle, mica su quella di un altro. Sono arrivato ad un filo dal baratro».

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