Parla il provveditore Graziani «Non siate sindacalisti dei figli»

Quando si è studenti si sogna, anno dopo anno, di varcare finalmente per l’ultima volta il portone dell’amato e odiato edificio scolastico per “uscire a riveder le stelle”. Una volta fuori, si guarda indietro e si scopre che la scuola è uno straordinario ingranaggio e che, pur avendoci vissuto per molti anni, è stato possibile coglierne solo un’infinitesima parte. Abbiamo pensato a un viaggio in questo mondo, per scoprirlo, e indagarlo, al di là della facciata. Cominciamo dal dirigente scolastico territoriale, Patrizia Graziani, da sei anni a Bergamo, proveniente da Mantova. La dirigente (una volta si diceva “provveditore agli studi”) parla nel suo studio, è affabile, sorride. Alle sue spalle un crocifisso in legno, a destra le bandiere, a sinistra una madia, semplice e sobria.
Come va la scuola?
«A Bergamo bene. Le scuole di Bergamo propongono un’offerta formativa completa. In città mancava un istituto alberghiero, ma siamo riusciti a realizzarlo, dal prossimo anno scolastico. Sarà dedicato al grande ristoratore Vittorio Cerea e avrà sede al Galli. Un alberghiero è un istituto complesso e molto costoso, anche a causa delle attrezzature necessarie. Lo avviamo grazie al grande aiuto da parte dei genitori».
La componente genitori è importante nella scuola.
«Certo. Ma sarebbe importante che i genitori facessero meno i sindacalisti dei figli e guardassero di più all’interesse educativo. Nella scuola di oggi troppo spesso vanno in conflitto con i docenti. Dobbiamo arrivare, o tornare, all’alleanza educativa, non al conflitto educativo. Nell’interesse dei ragazzi, della loro crescita».
Sta arrivando anche un liceo internazionale.
«Sì, al Sant’Alessandro, si tratta di un liceo internazionale classico e scientifico con una curvatura europea. Alcune materie saranno insegnate in lingua straniera. Una sperimentazione».
Bergamo ha sempre avuto una forte tradizione di scuole paritarie.
«E continua ad averla, ben sopra la media nazionale. Sebbene ci sia un calo anche qui. Credo che il motivo principale stia la crescita di prestigio delle scuole pubbliche. Anche la crisi economica scattata dal 2008 ha penalizzato queste scuole. Infine, per le scuole di ispirazione cattolica, credo possa incidere anche il fatto che nella nostra società l’aspetto religioso sembra meno sentito. Si parla di “secolarizzazione”. Credo incida, sì».
L’ufficio scolastico provinciale è un ente utile?
«Se non ci fosse, tutta la macchina della scuola si fermerebbe. Da noi lavorano cinquanta persone e facciamo fatica a tenere dietro a tutte le incombenze. Ci occupiamo di assegnare i docenti alle scuole, sia a tempo indeterminato che a tempo determinato, teniamo le graduatorie, determiniamo il fabbisogno di organico delle scuole, compreso il personale Ata, di segreteria. Ci occupiamo delle pensioni e delle ricostruzioni delle carriere. E poi c’è tutta la questione di organizzare gli esami di Stato e le maturità. E ancora l’economato deve occuparsi di distribuire le risorse alle scuole paritarie. Dobbiamo decidere come indirizzare i fondi per il sostegno alla didattica, per esempio riguardo a iniziative come Bergamo Scienza, come l’educazione stradale, le iniziative riguardanti bullismo e fragilità. E poi il tema degli allievi con handicap...».
Ma quanti studenti ci sono in Bergamasca?
«Sono quasi 138mila».
Un esercito. Gli studenti con disabilità frequentano soprattutto le scuole tecniche e professionali.
«Sì, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà a livello cognitivo. Li troviamo soprattutto al Mamoli, al Pesenti e al Caniana. Solo al Mamoli ne abbiamo ottanta. In totale ci sono quattromila e seicento studenti con disabilità».
Secondo lei un ragazzo con sindrome di Down, per esempio, potrebbe frequentare il liceo classico?
«Sì, ne sono convinta. Anche se avviene molto raramente. A patto che si predisponga un progetto studiato sulla persona. Anche un ragazzo Down potrebbe accostarsi al latino e al greco. E le dico di più: sarebbe un arricchimento per tutti gli studenti, e non solo per loro. Vede, anche per questo sono importanti i progetti di inclusione delle scuole. Importanti se non restano soltanto atti dovuti, formalità burocratiche».
Si dice che insegnare in una scuola professionale sia un’impresa improba.
«Nelle scuole professionali troviamo ragazzi di ogni tipo, ma soprattutto quelli che hanno registrato le maggiori difficoltà alle elementari e alle medie. Per questioni di carattere, per problemi familiari, sociali. Perché provenienti da altri Paesi. Consideri che in istituto come il Pesenti possiamo trovare anche quaranta nazionalità diverse. Con enormi differenze culturali. Ma questo problema può diventare anche una risorsa».
Si spieghi.
«Faccio un esempio. Lo scorso anno sono andata al Pesenti con il prefetto. Siamo state accolte da una danza rap ed etnica. Bellissima. Prima di Natale ho assistito a una rappresentazione contro il femminicidio, ancora al Pesenti. Altra cosa bellissima. Il preside Pacati e i suoi insegnanti e tutto il personale lavorano a un progetto educativo inclusivo che sta dando risultati. A prezzo di sacrificio, certo».
Più comodo insegnare al liceo.
«Per certi aspetti. Per altri no. Un liceo è più semplice per quanto riguarda il rapporto con gli studenti e le dinamiche sociali sono certamente meno complesse, ma l’attenzione ai contenuti deve essere molto elevata. E il rapporto con la componente genitori, ad esempio, è molto più difficile. Gli insegnanti spesso si sentono con il fiato sul collo. Troppi genitori da educatori corresponsabili si trasformano in sindacalisti dei figli. Lo sa che io ricevo tre mail in media di protesta al giorno da parte di genitori? Si immagini i presidi e gli insegnanti...».
Di che cosa ha bisogno la scuola?
«Prima di tutto di stabilità. Per tanti anni nella scuola non si è mosso nulla. Poi, dagli Anni Ottanta, sono cominciati i cambiamenti. Ultimamente a ritmo eccessivo. Dobbiamo interiorizzare i cambiamenti. La vera questione, oggi, è l’aggiornamento dei docenti, un aggiornamento profondo, sostanziale. Non di facciata».
I docenti si lamentano di un eccesso di burocrazia.
«Per un verso li capisco. Come capisco anche i presidi, alcuni di loro sono terrorizzati da norme e vincoli che comportano anche responsabilità penali, ma che sarebbero da rivedere, altrimenti si rischia la paralisi. Un ragazzo che si rompe un braccio perché cade dalle scale può diventare un incubo per un dirigente scolastico o per un insegnante. C’è qualcosa che non va nella legislazione».
Gli insegnanti si considerano comunque degli intoccabili.
«Questo non è giusto. Gli insegnanti devono avere tutta la libertà, ma devono anche rendere conto. Tutti dobbiamo rendere conto. La cultura degli insegnanti ancora oggi vede la valutazione come un tabù, ma è sbagliato. Di recente, a fatica, si sono introdotti finalmente elementi di valutazione degli insegnanti come anche dei dirigenti scolastici. Non è semplice. Quello che conta è che non si instauri un clima di controllo e sospetto. Dobbiamo recuperare anzi serenità, dialogo fra le componenti. E i presidi devono recuperare il ruolo di leader educativi, prima ancora di essere manager e burocrati».
Una cosa bella.
«La consulta degli studenti. Funziona davvero bene, i ragazzi danno soddisfazioni, fanno proposte, sono da stimolo, non si fermano alla protesta, anzi».
Qualcosa da cambiare?
«Ridimensionerei la funzione del registro elettronico che sì tiene informate le famiglie, ma c’è il rischio che sostituisca il rapporto personale che invece è più che mai necessario. Sogno una scuola dove gli insegnanti siano dei veri maestri e dove i genitori si interessino positivamente alla didattica e ai figli in un rapporto di collaborazione e non di conflitto. Sogno quel “patto di corresponsabilità educativa” di cui spesso si sente parlare. Considerando che la scuola non è onnipotente, certo che ha dei limiti, per esempio non può sostituire la famiglia... Non dobbiamo dimenticare che l’articolo 30 della Costituzione dichiara: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”».