Fu ucciso il 2 novembre 1975

Perché 40 anni dopo la morte Pasolini fa ancora discutere

Perché 40 anni dopo la morte Pasolini fa ancora discutere
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Cos’ha di speciale Pier Paolo Pasolini da accendere ancora così tanto interesse a 40 anni dalla morte? Non c’è scrittore, non c’è regista, non c’è artista che regga il confronto. Chi avrebbe ricordato i 40 anni di Moravia o di Gadda o anche di Calvino che di Pasolini fu l’alter ego? È la domanda vera che i mille articoli, appuntamenti, letture, spettacoli, libri allegati ai giornali suscitano in questi giorni. Il 2 novembre del 1975 Pasolini moriva nelle circostanze tragiche che conosciamo: 40 anni non sono un anniversario di rilievo. Ma quando si tratta di Pasolini ogni occasione diventa buona per riprendere il discorso. E il pubblico immancabilmente aderisce. Che cosa ha dunque di speciale Pasolini da farci pensare che il discorso che lo riguarda non sia mai esaurito?

 

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La prima risposta che si può dare è che Pasolini fu un intellettuale non chiuso in se stesso, ma aperto, anche dolorosamente, su tutte le ferite e inquietudini del mondo. Non fu uno scrittore o regista o poeta che aveva costruito un suo mondo, ma che restò sempre spalancato sul mondo. Da lui non puoi mai aspettarti risposte; da lui ti arrivavano sempre domande. E le domande per loro natura restano sempre aperte.

In secondo luogo Pasolini fu l’intellettuale più antischematico della storia della cultura italiana del 900. Era capace di relazioni trasversali, sapeva relazionarsi con mondi che sembravano lontani gli uni dagli altri, ma che proprio nella relazione con lui sapevano dare il meglio.

Prendiamo i cattolici. Lui non si professava tale, ma non aveva mai chiuso la partita. Si lasciava interrogare in molto aperto e leale. Proprio in questa sua ansia di risposte vere e non formali, frequentava persone che lui riteneva capaci di toccare corde dell’umano che lo interessavano e affascinavano. Quando con Moravia negli anni 60 andò in India e si fermò a Calcutta, contro la volontà dei suoi compagni di viaggio, volle recarsi nell’ospedale dove lavorava una certa madre Teresa, suora albanese. Ne aveva sentito parlare; lei era ancora una suora mediaticamente oscura. Lui ne restò colpitissimo e nel libro diario che scrisse al ritorno da quel viaggio, L’odore dell’India, scrisse di quanto fosse rimasto impressionato da quell’incontro. Teresa, disse «è una che quando guarda, vede», alludendo ad una profondità di sguardo capace di arrivare alla radice dell’essere. Agli inizi degli anni 60, mentre era alle prese con il cantiere per il Vangelo secondo Matteo, uno dei suoi film più belle e famosi, si recò in visita da un eremita cieco che viveva nelle valli dell’Oltrepo pavese. Era Frate Ave Maria, un personaggio che non avrebbe attirato l’interesse di nessun altro intellettuale italiano. Lui ne restò colpitissimo. «Frate Ave Maria aveva tutta l’attenzione per me», ricordò. «Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il “suo Gesù” ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo lui conosce davvero il cuore umano». Di quell’incontro riferì anche in alcuni versi di Poesia in forma di rosa, una delle sue raccolte più famose. In quei versi spiegava così il suo modo di cercare relazioni, spesso sorprendenti: « E cerco alleanze che non hanno altra ragione / d’essere, come rivalsa, o contropartita, /che diversità, mitezza e impotente violenza».

 

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Infine c’è da ricordare quell’incontro per lui tanto importante con don Giovanni Rossi, presidente della Pro Civitate di Assisi. A lui poco prima di morire scrisse una lettera in cui si coglie tutta la libertà di Pasolini. Quella libertà umana e intellettuale che solo può spiegare il fatto che i 40 anni dalla morte siano un evento capace di accendere interesse, come se la morte fosse stata ieri. Sentite cosa scriveva a don Giovanni: «Sono bloccato, caro Don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il corpo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio».

 

 

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