sessant’anni di lavoro

Pierluigi, un barista bergamasco Storia toccante di una vita semplice

Pierluigi, un barista bergamasco Storia toccante di una vita semplice
Pubblicato:
Aggiornato:

«Se è cambiata Bergamo? Altroché se è cambiata. Al di là delle grandi cose, dei filobus e dei tram e delle stufe a legna che non ci sono più. Sono cambiati i caffè. Una volta era il caffè, punto. Adesso è il caffè lungo, stretto, decaffeinato, al ginseng, il marocchino, con lo zucchero di canna, con il dietor, macchiato caldo, macchiato freddo... È cambiata la gente, sono diverse le relazioni fra le persone».

Pierluigi Acquaroli da sessant’anni sta dietro il bancone del bar. Dalla fine del 1956. Oggi, e dal 1983, lo si può incontrare ogni giorno, dalle 6 della mattina, nell’Alex Bar di via Broseta, all’incrocio con via IV Novembre. Questo bar è come una famiglia, tutti si salutano, tutti si conoscono per nome. Dice Pierluigi Acquaroli: «Sono qui da trentatré anni, vuole che non conosca i miei clienti? Certo ne entrano anche di nuovi, ma il novanta per cento è costituito da persone che conosco da tanti anni, da ragazzi che sono diventati adulti e oggi sono papà o mamme. Si vedono tante cose stando da questa parte del bancone, dietro la macchina del caffè. Per fare questo lavoro devi essere una persona aperta, accogliente. È vero che ogni cliente è importante, ogni cliente va trattato nel migliore dei modi, rispettato anche quando dice cose che ti danno fastidio».

 

via-broseta

 

Ricordi di un altro mondo. Pierluigi è nato qui a Loreto, in quella che oggi si chiama Piazza del Risorgimento e un tempo non c’era, perché c’erano soltanto case di campagna. Niente asfalto e niente condomini, palazzi. Dice Pierluigi: «Ricordo bene i primi anni dopo la guerra, noi bambini ci divertivamo, giocavamo a nascondino nei campi di mais, si giocava a pallone per strada, le automobili erano molto rare. Pensi che facevamo un gioco: ci sedevamo sul muretto lungo la via Broseta che allora era la via principale in direzione Lecco e Como; contavamo le macchine e scrivevamo su un quaderno le targhe! Era uno dei nostri divertimenti nei pomeriggi d’estate. Ricordo che difficilmente in un intero pomeriggio si arrivava a contare cento automobili, nelle due direzioni».

Alla Trucca i ragazzi di Loreto andavano a fare il bagno e pescavano pesciolini e rane. I condomini che oggi sono la realtà del paesaggio cominciarono a sorgere verso la fine degli anni Cinquanta. Pierluigi Acquaroli parla in questo pomeriggio di fine novembre, nell’orario più calmo del lavoro del bar, indossa la sua divisa: giacca azzurra e camicia bianca. «L’asfalto lo hanno messo verso il 1951, un asfalto che era di cemento, come quello che resiste ancora in via San Giovanni, ha presente? Allora eravamo tutti poveri. Per aiutare in casa dopo la quinta elementare portavo il latte con la bicicletta fin su in Borgo Canale. Dieci litri di latte davanti e dieci dietro. Che fatica. Mio papà è morto quando io avevo quindici anni; eravamo cinque fratelli, quattro maschi e una femmina. Bisognava darsi da fare. Io e Tino siamo andati a lavorare nei bar, abbiamo lavorato tanto insieme. Poi lui ha preso il bar Haiti di largo Rezzara. Era una persona speciale Tino. Un lavoratore mai visto. Altruista. Nella sere d’estate andava a portare i gelati alle persone anziane del borgo, le persone più povere. Glieli portava in casa. Gratis, ovviamente. Era fatto così. È morto due anni fa, per me è stato un colpo durissimo. È stato allora, due anni fa, che ho cominciato a pensare di lasciare il bar. Sono passati sessant’anni, sono in pensione da quindici, perché resto ancora qui a preparare i caffè? Me lo chiedo».

 

IMG_0095

 

A lavorare in giro per l'Europa. A quattordici anni al bar Mokito di via Venti Settembre (oggi si chiama bar Santa Lucia), poi un’esperienza in Germania, quindi in Francia. Racconta: «A diciassette anni sono partito per la Germania con un mio amico di Ponte Nossa che poi è diventato maìtre in un hotel di Parigi, ma da vent’anni non ho più sue notizie, si chiama Giancarlo Aventi. Chissà se c’è ancora. Siamo andati a Stoccarda a lavorare in un “Tanz local”, cioè una sala da ballo. A Stoccarda ci aspettavano due fratelli che erano originari di Ponte Nossa e avevano questo locale che teneva aperto dalle otto di sera alle quattro della mattina. Scendemmo in questa grande stazione, come Milano Centrale, e avevamo un fazzoletto legato al braccio per farci riconoscere! Che tempi. Era il 1960, la Germania sentiva come noi ancora il peso della guerra. Ricordo che dormivamo in un tugurio.

Rimanemmo a Stoccarda un annetto, poi andammo in Alta Savoia, ad Aix Le Bains, in un ristorante pizzeria che era gestito da un uomo della Corsica, un duro. Un posto bellissimo. Il lago, le montagne. Mentre la mentalità tedesca era molto diversa da quella italiana, in Francia sembrava di essere a casa. In Germania anche la lingua era un bel problema. Ricordo una volta che dovevo compilare un modulo in un ufficio e l’impiegata continuava a dirmi “firma, firma, firma!” e io per tre volte ho messo la mia firma sul modulo... poi è arrivato un italiano che sapeva il tedesco, mi ha spiegato che firma significava “azienda, ditta”. L’impiegata voleva sapere in quale ditta io lavorassi!».

 

01-naja-fotogramma_mgzoom

 

Gente d'altri tempi. E un aneddoto. Pierluigi è rientrato in Italia per il servizio militare, a Bressanone, nel 1963, in pieno periodo degli attentati. «Ero al comando della brigata e venne da noi per tre volte il ministro Andreotti e io in quei pochi giorni gli feci da attendente. Era una persona squisita. Una volta mi disse: “Io non capisco... Ma com’è che voi bergamaschi siete una terra così cattolica e poi siete anche dei grandi bestemmiatori?”. Dopo il militare sono tornato a Bergamo, al mio vecchio Mokito del signor Peppino. Alla fine ho lavorato da lui per più di sette anni, in due tempi. In sette anni mi avrà detto cento parole. Era uno all’antica. Che persone. Non potevi bere nemmeno un bicchiere d’acqua, in servizio. Un pomeriggio d’estate, mi mandò giù in magazzino dove avevamo il freezer a prendere il ghiaccio. Io lo tolsi, poi vidi la serpentina con tutto il ghiaccio incrostato e allora cedetti alla tentazione. Avevo sete e caldo: leccai la serpentina. E la lingua mi rimase incollata! Non riuscivo più a muovermi e lui mi chiamava... Poi è sceso, mi ha visto lì così e mi ha sferrato un calcio nel sedere! La lingua si è staccata, sono caduto. Mi ha licenziato in tronco. Ma al mattino dopo è venuto a casa a cercarmi. Che spavento mi sono preso per la lingua!».

L'avventura in Sant'Alessandro. A ventiquattro anni, Pierluigi prese in gestione con il fratello Tino il bar accanto alla chiesa parrocchiale di S. Alessandro. Dice: «Mi ero appena sposato. Abbiamo preso quel bar, un’osteria popolata di uomini che passavano lì giorno e sera, che giocavano a carte, a biliardo, bevevano il bianco e il rosso. Si chiudeva alle volte alle quattro della mattina. Le dicevo che Bergamo è cambiata, eccome. Adesso quei bar non esistono più perché è cambiato il tessuto umano. Per certi aspetti migliorato. Tanti uomini passavano la giornata al bar, giocavano a carte, scommettevano soldi. Si dimenticavano delle famiglie. Bevevano, c’erano tanti ubriachi abitudinari. Oggi è molto diverso. Anche se i problemi non mancano, veda le macchinette mangiasoldi. Io non le ho mai volute mettere, vedo troppa povera gente che si rovina per quegli aggeggi. Fa bene il sindaco Gori a battersi contro».

 

039-1024x682

 

«Volevo cambiare vita». Sant’Alessandro è stato per Pierluigi e il fratello Tino una prova impegnativa. Al punto che nel 1983 Pierluigi decise di fare il rappresentante della Segafredo. Tino prese il bar Haiti, cento metri più in basso. Racconta Pierluigi: «Volevo cambiare vita, stare di più con la moglie, i miei tre figli. Se non fosse stato per Mirella... lo sa che i miei figli sono tutti e tre laureati? Una bella soddisfazione. Tutto merito di mia moglie. Lavorai per la Segafredo un paio di mesi. Poi presi un altro bar. Mi mancava la macchina del caffè, mi mancava il rapporto con i clienti, la gente, le parole, la soddisfazione di un cappuccino ben fatto. Il primo di agosto del 1983 entrai in questo bar e da allora sono qui.

Ah, lo sa come ho conosciuto mia moglie? Glielo spiego. Tornai dalla Germania, avevo una morosina lassù che mi scriveva delle lettere, ma io non capivo il tedesco scritto. Un mio amico che lavorava nel ristorante Manarini, che allora era un importante ristorante della città, mi disse che conosceva una ragazza che sapeva il tedesco, si chiamava Mirella. Andai da lei a fare leggere le lettere della fidanzatina tedesca e... ha già capito. E sa un’altra cosa? Mia moglie è una persona splendida, senza di lei avrei fatto gran poco. Dicono che morirò qui davanti alla macchina del caffè, può darsi: vorrei comunque morire un’ora prima di lei».

Seguici sui nostri canali