Pupi Avati, 76 anni di successi e cinque film per festeggiarli
Fra gli interpreti più longevi e interessanti del cinema italiano, Giuseppe “Pupi” Avati spegne oggi 76 candeline. Originario di Bologna, il regista ha portato il ricordo della sua terra in molti suoi film, raccontandolo attraverso una sensibilità spesso campagnola e giudicata a volte meno raffinata rispetto a quella di altri suoi colleghi.
La sua lunghissima carriera, iniziata negli anni Settanta, non si è ancora arrestata: fra i numerosi riconoscimenti vinti si contano anche tre David di Donatello e due onorificenze conferite dalla Repubblica Italiana per i successi nelle attività culturali ed artistiche, oltre alle numerose partecipazioni ai più importanti festival internazionali d’arte cinematografica. Per raccontare in breve la sua storia e festeggiare la sua lunga permanenza dietro la macchina da presa vi proponiamo oggi cinque film assolutamente imperdibili.
Fra i primi lungometraggi diretti da Avati una posizione di tutto rispetto è occupata da La casa dalle finestre che ridono, considerato da molti ancora oggi il suo miglior film. Giallo all’italiana girato nel pieno del successo del genere, il film del 1976 ha la caratteristica più unica che rara di essere ambientato nella provincia ferrarese. Protagonista della vicenda è un giovane restauratore, arrivato nel paese per restaurare un affresco raffigurante un San Sebastiano. L’opera era stata dipinta dal pittore Legnani, folle suicidatosi circa trent’anni prima. La sua opera lo porterà a scontrarsi con i segreti del passato e a trovarsi coinvolto in un’atmosfera losca e tesissima. Ancora un po’ acerbo, il film è un’ottima testimonianza della qualità di Avati come regista, che riesce a far vivere in maniera credibile personaggi e ambienti in maniera inquietante e terribile. Le atmosfere de La casa dalle finestre che ridono sono ancora oggi fra le migliori che il genere abbia saputo proporre.
Di tutt’altro tipo è il successivo Una gita scolastica, realizzato nel 1983, film di grande successo che, per i giovani spettatori di quella generazione, ha avuto un valore emblematico e rimane ancora oggi un titolo da rivedere con affetto. Raccontata in flashback da una anziana professoressa che fatica a ricostruire gli eventi nel modo corretto, la storia è quella di una gita premio che una classe di studenti nel 1914 svolge a piedi, da Bologna a Firenze, attraverso l’Appennino. Ben lontano dalle atmosfere thriller, il film è un racconto molto raffinato e lirico, nonché triste: si apprende subito di come la gita si sia in realtà trasformata ben presto in una tragedia, al di là di un finale che non risolve la questione e anzi propone una conclusione sospesa. Ottima la regia di Avati che muove i suoi personaggi in spazi di grande delicatezza: anche in questo caso è il senso del paesaggio a fare la differenza, per un film premiatissimo a livello nazionale e non solo.
Ancor più raffinato e perfezionato nello stile è Magnificat che, nel 1993, segna un altro repentino cambio di rotta nella carriera del regista. Evidentemente connesso al tema religioso, il film è ambientato nell’Alto Medioevo. Prima dell’Anno Mille che segna, secondo quanto si dice, la rinascita della civiltà dopo i cosiddetti secoli bui, Magnificat propone una serie di vicende accomunate solo dal tema della ricerca di Dio e della superstizione. Debitore del titolo da una preghiera alla Vergine, ci propone una serie di episodi surreali e come strappati da un sogno, infusi però di grande umanità e di una forte religiosità. La morte diventa la cifra stilistica di questo grande almanacco della fede, che conta, fra gli altri eventi, la triste storia di una bambina che viene spedita dai genitori in convento per iniziare la propria strada verso Dio. Notevole è anche l’episodio in cui un frate pellegrino prende nota dei nomi e delle azioni dei propri fratelli scomparsi. In un modo che non può non ricordare Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, Avati racconta di un mondo malato e apparentemente privo di valori etici. Senza dubbio il suo capolavoro.
Negli anni Zero, la fama di Avati come regista cresce in modo esponenziale anche al di fuori dei confini nazionali: sono anni in cui il regista realizza titoli di grande intensità ad un ritmo davvero notevole. È il caso di La seconda notte di nozze, del 2005. Attraverso un cast notevole, su cui spiccano Antonio Albanese (attore capace di grandi prove sia in ambito comico che in ambito drammatico) e Neri Marcorè, Avati torna a raccontare la sua terra nel dopoguerra. Liliana, la protagonista, si troverà a dover abbandonare Bologna e a trasferirsi in Puglia dal cognato - folle e una volta innamorato di lei - insieme al figlio, altrettanto particolare. Da qui prende le mosse un dramma familiare a tratti tragicomico, che si origina dai sentimenti a lungo rimasti sopiti. La seconda notte di nozze è un film delicato, che si basa tutto sulla costruzione dei personaggi, che in questo caso sembrano ispirati quando non attinti dai grandi autori della nostra letteratura, Pirandello e Svevo in primis. Straordinaria interpretazione di Albanese nei panni del folle Giordano, di gran lunga il personaggio meglio riuscito dell’intero film.
Nel 2008 è la volta de Il papà di Giovanna, che conta sulla presenza di Silvio Orlando e, cosa che ha fatto discutere forse più del dovuto, di Ezio Greggio in un ruolo del tutto diverso dai suoi. Ci troviamo ancora a Bologna, ancora lontani dal contemporaneo (questa volta nel 1938). La ragazza del titolo è Giovanna Casali, bruttina, il cui padre – professore nella sua stessa scuola – fa di tutto per convincerla di non esserlo. Le sue scelte saranno però molto gravose, dal momento che proprio a partire da qui si svilupperanno le premesse di una tragedia imprevista. Avati si rivela ancora una volta capace di raccontare il dramma della formazione e del rapporto con la propria immagine, oggi come ieri quanto mai centrale. Film forse meno riuscito dei precedenti, Il papà di Giovanna è stato criticato perché anziché concentrarsi sui personaggi e sul rapporto fra Giovanna e il padre, a un certo punto svia e finisce col raccontare un pezzo (drammatico) della storia d’Italia. Vero, ma non è necessariamente un peccato.