I CAPITANI DELLA DEA

Il giorno in cui Fortunato cedette la fascia a SuperPippo

Il giorno in cui Fortunato cedette la fascia a SuperPippo
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Quando la barca sta per affondare, il capitano deve essere il primo ad abbandonarla o l'ultimo a lasciarla? E quando la tempesta infuria, il suo grido deve servire a motivare o calmare gli animi? Coraggiosi o silenziosi, quelli con la fascia stretta al braccio hanno un compito più grande degli altri. Sono i capitani della nostra passione. Vengono scelti per l'esperienza sul campo come veterani di mille battaglie. Leader di se stessi, prima ancora che del gruppo. Umili, leali, valorosi. Generosi. Quando nel '70 Beckenbauer si lussò la spalla, non fu l'epica di Italia-Germania a imporgli di giocarla lo stesso, ma la responsabilità di guidare il suo equipaggio che percepiva dentro. Anche il carisma è una forma di talento, ed è concesso a pochi. Come il dribbling. La fantasia. Così, con semplice naturalezza, i capitani si caricano il peso della responsabilità sulle spalle, dentro al campo, e fuori, nella vita. Fino al novantesimo. Ce ne sono stati tanti anche nell'Atalanta. Qualcuno ve lo vogliamo raccontare.

DANIELE FORTUNATO
Il giorno di Reggiana-Atalanta, Daniele Fortunato aveva guardato il cielo dal finestrino dell'autobus e aveva visto le nuvole passare veloci. Era la sua ultima partita da giocatore, e certe immagini chissà perché si imprimono nella memoria come un'impronta. Poi era andato da Pippo, gli aveva messo la mano sulla spalla, e non c'erano voluti troppi discorsi: «Oggi la metti tu». Inzaghi se la stava giocando per diventare il capocannoniere di quel campionato, e a Daniele sembrò giusto concedergli quel valore che si stringe al braccio. La fascia di capitano. Tutta la squadra la pensava allo stesso modo. «Volevo dirgli: il presente sei tu, io sono già nel passato». Oggi Fortunato ha cinquant'anni, qualche ruga in più di allora, anche qualche capello in meno. Ma quella saggezza di capitano si è solo cementificata un po' di più. «Avevo fatto quel gesto perché indossare la fascia di capitano ha un significato profondo. Qualche allenatore la dà così, anche a un giovane che deve dimostrare tutto. Ma non è una stupidaggine. Bisognerebbe darla sempre a qualcuno di esempio».

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Era il '97. Tre anni prima Fortunato era tornato a Bergamo dopo aver girato un pò: Juventus, Bari, Torino. Ma casa è casa, e con l'Atalanta l'intesa c'era stata sempre, anche prima, alla fine degli anni Ottanta, quando in nerazzurro invece ci era arrivato dal Vicenza. Il capitano di quell'Atalanta era Mimmo Gentile. «Di poche parole, grande professionalità. Diceva poco, ma sul campo se doveva dire una cosa la diceva. Punto. È così che bisogna fare». Certo ne ha visto tanti, di leader. E da quasi tutti si cerca di prendere il buono e si lascia lì quel che non va. «Una volta mi ricordo - ride Fortunato adesso che sono passati tanti anni -: prima stagione dopo il mio ritorno a Bergamo, la squadra va male. Allora ci chiamano a rapporto i tifosi. Andiamo io, Mondonico e Randazzo. Bisognava calmare un pò le cose. Perché poi se sei un leader c'è bisogno anche di quell'aspetto lì». Quando stava alla Juve, l'avvocato Agnelli di lui disse: "Se in campo ci va Fortunato io sono tranquillo». Perché l'autorità è più efficace quando è pacata e ferma come la montagna. E infatti quando poi è diventato l'uomo con la fascia al braccio, Fortunato non ha mai alzato i toni o sparato a zero. Teneva le fila dello spogliatoio, «perché - spiega - al campo ci pensa il mister. Il capitano deve solo aiutare, dare una mano quando c'è una difficoltà, mettersi a disposizione del gruppo, o del singolo se ce n'è bisogno».

 

 

Il giorno di Reggiana-Atalanta le nuvole passavano veloci e il tempo di Daniele Fortunato era già una carriera fa. Inzaghi fece due gol, e quell'anno diventa il capocannoniere. Ma quel giorno un gol lo fece anche Fortunato, l'ultimo della carriera. «Era il novantesimo. E insomma mi arriva questa palla e da venti metri riesco a segnare questo gol con il portiere che era andato a farfalle». Finita con il campo, Fortunato ha fatto l'allenatore. Ha girato un po' qui e un po' lì, è andato pure in Portogallo (l'anno scorso) e ha salvato il Beira-Mar che gioca nella serie B portoghese. Adesso aspetta una squadra di Lega Pro. Non è uno che ha fretta. Tante volte gli hanno detto che la lentezza era il suo difetto. Una volta, dopo l'esperienza in bianconero, quando aveva ancora i capelli lunghi e il pizzetto disse: «Credo di avere tempismo e senso della posizione. Comunque, se proprio bisogna trovare un difetto al sottoscritto, va bene la lentezza, tanto più che un fulmine di guerra comunque non sono mai stato». Infatti si sbagliavano. Non era lentezza. Era metodo. Un metodo da capitano.

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