Giovanni Ermete Gaeta (E.A. Mario)

Chi scrisse "Il Piave mormorava" (oggi si direbbe cornuto e mazziato)

Chi scrisse "Il Piave mormorava" (oggi si direbbe cornuto e mazziato)
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Vedi te cosa ti tocca se componi la canzone patriottica più famosa del tuo Paese, quella che comincia: "Il Piave mormorava...". Dapprima, a caldo, grandi elogi e commossi. Il capo di stato maggiore del Regio Esercito, detto anche Duca della Vittoria per aver vinto la guerra, il generale Armando Diaz ti manda un telegramma nel quale - forse parafrasando quel che si era detto a suo tempo di Le mie Prigioni del Pellico (che erano costate all’Austria più di una battaglia perduta) - ti ringrazia per essere stato utile alla patria più di un generale al fronte. Poi la burocrazia.

Giovanni Ermete Gaeta (universalmente noto con lo pseudonimo di E.A. Mario) era impiegato delle poste a Napoli quando scrisse La leggenda del Piave. A tre anni dalla fine della guerra si vide pertanto licenziato perché la sua attività musicale non era ritenuta consona all’impiego. A far decidere in tal senso i dirigenti fu anche il fatto che nello stato di servizio compariva una sanzione pregressa dovuta al fatto di aver utilizzato - per scrivere la canzone per cui Diaz ecc. ecc - il retro di un modulo per telegrammi. Spreco di risorse pubbliche. È vero che dodici anni dopo (1933) fu reintegrato a seguito di una decisione del tribunale, ma con una qualifica inferiore, quella di Avventizio Postale. E la Fornero non era ancora nata.

Contemporaneamente la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) bloccava la corresponsione dei diritti all’autore accampando il fatto che la canzone era divenuta l’inno degli Italiani e come tale da considerarsi appartenente allo Stato. Il Gaeta avviò allora una causa - che non si concluse mai - nel corso della quale rischiò perfino di essere arrestato per aver dapprima rifiutato, per modestia, un premio che il Re Vittorio Emanuele III avrebbe voluto conferirgli, e poi per aver ospitato in casa sua un amico pittore che però risultava schedato come anarchico. Per questa ragione i servizi segreti di allora lo tennero sotto osservazione come sospetto sovversivo fin che dal Regno dei Savoia non si passò alla Repubblica democratica e antifascista.

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Parve allora che il vento sarebbe mutato, perché si pensò addirittura di utilizzare La Leggenda come inno ufficiale della Repubblica. Tuttavia, perdurante il ballottaggio con l’Inno che poi ebbe la meglio, l’allora segretario della Democrazia Cristiana e capo del governo Alcide De Gasperi chiamò il Gaeta per chiedergli se fosse disponibile a scrivere una nuova canzone in grado di suscitare l’impeto ideale richiesto dalle vicende della pace. Si trattava, in realtà, della richiesta di un inno ufficiale per la DC. Ma l’interpellato, pur dicendosi onorato della richiesta (di cui non aveva compreso a pieno la portata, al momento) la declinò perché, disse, non era capace di scrivere su commissione. In effetti aveva sempre scritto quel che gli veniva dal cuore, come tutti i napoletani poveri. De Gasperi - che era stato per altro molto gentile e discreto - non la prese bene e da quel momento sostenne l’Inno di Mameli.

Tutto questo fu fatto a uno che, pur essendo stato esonerato dal servizio militare per motivi di famiglia, aveva comunque voluto rendersi utile ai soldati ottenendo dalla direzione delle Regie Poste l'autorizzazione a servire nelle unità postali ambulanti impegnate a portare le lettere ai soldati in trincea. Lo stesso, tanto per non farci mancare niente, che nel 1941 donò alla patria, assieme alle fedi sue e della moglie, anche le prime cento medaglie d’oro che i comuni del Piave avevano voluto conferirgli per aver scritto quella canzone (le altre gli sarebbero state rubate dai soliti ladri).

Fa parte delle curiosità della storia anche il fatto che nel 2008 Umberto Bossi ripropose la candidatura della Leggenda del Piave a inno nazionale, dopo che - anni prima - ci aveva fatto un pensierino per usarla come inno della Lega. Forse non aveva letto bene il testo. Sta di fatto che poi le preferì il famoso inno verdiano e forse il nostro autore non ne fu scontento.

 

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La leggenda del Piave

 

Il Piave mormorava,
calmo e placido, al passaggio
dei primi fanti, il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava
per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera...Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava, e andare avanti!S'udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il tripudiar dell'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero,
il Piave mormorò:
«Non passa lo straniero!»Ma in una notte trista
si parlò di un fosco evento,
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento...
Ahi, quanta gente ha vista
venir giù, lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!Profughi ovunque! Dai lontani monti
Venivan a gremir tutti i suoi ponti!S'udiva allor, dalle violate sponde,
sommesso e triste il mormorio de l'onde:
come un singhiozzo, in quell'autunno nero,
il Piave mormorò:
«Ritorna lo straniero!»E ritornò il nemico;
per l'orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame...
Vedeva il piano aprico,
di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora...«No!», disse il Piave. «No!», dissero i fanti,
«Mai più il nemico faccia un passo avanti!»Si vide il Piave rigonfiar le sponde,
e come i fanti combatteron l'onde...
Rosso di sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
«Indietro va', straniero!»Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento...
E la vittoria sciolse le ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere, furon visti
Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti...Infranse, alfin, l'italico valore
le forche e l'armi dell'Impiccatore!Sicure l'Alpi... Libere le sponde...
E tacque il Piave: si placaron l'onde...
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò
né oppressi, né stranieri!

 

 

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