Rischia l'ergastolo Bergdahl Il sergente che tradì l'America

Il sergente Robert Bowdrie Bergdahl è stato prigioniero dei talebani per cinque anni, dal giugno 2009 fino al maggio 2014. Durante la prigionia, Bergdahl sarebbe stato maltrattato e torturato, avrebbe tentato la fuga, ma poi sarebbe stato recuperato e rinchiuso in una gabbia di metallo. Ma forse ora che è rientrato in America rischia ancora peggio, ossia la pena di morte o l'ergastolo. E questo sebbene sia stato liberato grazie a un’operazione della Delta Force e un accordo tra il governo statunitense e i talebani, accordo che prevedeva la scarcerazione di cinque afghani, detenuti a Guantanamo.
Sospetto di diserzione. La vicenda che ha coinvolto Bergdahl è molto complessa. In primo luogo, non erano chiare le circostanze che hanno condotto alla cattura del soldato. Secondo un’indagine del Pentagono conclusa nel 2010, il sergente si era allontanato di sua volontà dal campo militare e avrebbe avuto l’intenzione di disertare, dirigendosi verso il Pakistan e poi verso l’India. Nelle email dirette al padre aveva espresso una crescente insoddisfazione per l’esperienza bellica e per l’esercito americano. Disapprovava il trattamento riservato da alcuni soldati alla popolazione locale e biasimava la presunzione americana, la convinzione di potere imporre agli afghani gli stili di vita “giusti”.




Un vero ginepraio d’accuse. Al sospetto di diserzione – che sarebbe stato confermato da un’indagine del Pentagono condotta nel 2010 – si era aggiunto, poi, il timore che Bergdahl volesse fare la spia per i talebani. Si era diffusa la notizia che il soldato aveva cominciato ad addestrare gruppi di miliziani, anche se poi gli stessi talebani hanno negato il fatto, affermando che Bergdahl si era prestato al compito solo per cercare di fuggire. Il soldato ha però imparato le lingue dei suoi carcerieri, il pashtu e l’urdu, e una volta a casa ha avuto difficoltà ad esprimersi in inglese. Il rientro in patria non si è risolto in un’accoglienza trionfale, per lui. Al contrario, si è ritrovato immerso in un giro di accuse che ha finito per coinvolgere anche Barack Obama. Il presidente degli Stati Uniti, infatti, non aveva informato il Congresso della sua intenzione di scarcerare i cinque talebani, come prescrive la legge americana, e i repubblicani hanno colto l’occasione per accusarlo di avere rimesso in libertà dei soggetti altamente pericolosi.
Bergdhal rischia la pena di morte. Per un anno non si sono più avute notizie di Bergdhal. Ora, tuttavia, il sergente è stato chiamato in giudizio dal generale Robert Abrams e dovrà subire un processo presso la corte marziale. Si dovrà difendere dall’accusa di diserzione e di cattiva condotta davanti al nemico. Se il tribunale dovesse riconoscere la colpevolezza di Bergdhal, il soldato potrebbe essere condannato a morte. La pena è ben più grave di quella raccomandata dall’ufficiale investigativo dell’esercito, il quale ha definito «inappropriata» l’eventualità di una condanna a morte. Di solito, infatti, la pena per la diserzione consiste in cinque anni di carcere, mentre quella per cattiva condotta di fronte al nemico – che comporta la messa in pericolo dei compagni – prevede l’ergastolo a vita. L’esercito non ha commentato la decisione del generale Abram di esporre il sergente a un processo che potrebbe portare alla pena capitale. L’udienza, inoltre, non è stata ancora fissata, ma sarà tenuta presso Fort Bragg, importante base militare nella Carolina del Nord.
L’ostilità repubblicana. La situazione di Bergdhal potrebbe essere peggiorata anche a causa degli insistenti attacchi da parte dei repubblicani. Donald Trump, candidato alle prossime presidenziali, ha chiamato apertamente il sergente un «traditore» che dovrebbe essere condannato a morte, mentre il gruppo repubblicano ha pubblicato un report che denuncia l’operato di Obama nel maggio 2014, definendolo senza mezzi termini «illegale». Gli avvocati difensori di Bergdhal hanno chiesto, non per la prima volta, che «Donald Trump cessi la sua compagna pregiudiziale di diffamazione» contro il loro cliente e che «si evitino ulteriori dichiarazioni o atti che pregiudichino il diritto a un giusto processo». Sarebbe scorretto affermare che la decisione del generale Abram sia stata influenzata dalle parole di politici infiammati, ma è un dato di fatto, invece, che la citazione in giudizio è avvenuta dopo che la trasmissione radiofonica “Serial” ha messo in onda una intervista a Bergdhal.
La mossa falsa di Bergdhal. Nel corso dell’intervista il sergente ha raccontato di avere capito di avere commesso qualcosa di grave venti minuti dopo essersene andato. Il militare ha ripetuto la stessa versione che ha dato all’investigatore dell’esercito. Bergdhal ha dichiarato di avere lasciato il campo per provocare una crisi e di volere andare in un’altra base, a 18 miglia di distanza. Secondo il sergente, questo gli avrebbe permesso di parlare con un comandante superiore dell’esercito, a cui avrebbe potuto esporre alcuni problemi di leadership che, per Bergdhal, stavano mettendo a rischio la sicurezza della sua unità. Durante il cammino, il soldato avrebbe poi deciso di sorvegliare alcuni talebani che stavano piazzando dell’esplosivo, per dare informazioni preziose al commando statunitense verso cui era diretto. Ha aggiunto che stava cercando di dimostrare al mondo di essere un soldato modello e di volere emulare Jason Bourne, il protagonista di un film di spionaggio. Il discorso di Bergdhal, tuttavia, non ha raccolto nuovi sostenitori, né gli ha attratto la simpatia dell’opinione pubblica. Al contrario, la partecipazione al programma radio ha peggiorato ulteriormente la sua condizione e gli ha inimicato i pochi che non gli erano ostili.