Roby Facchinetti: «La mia vita? Sempre sotto una buona stella»

Il suo vero nome è Camillo Ferdinando. Nato a Bergamo il Primo maggio ‘44, tutti lo conoscono col nome d’arte di Roby. Tastierista e leader vocale dei Pooh, ha firmato alcuni dei più grandi successi discografici italiani come Piccola Katy, Tanta voglia di lei, Pensiero, Noi due nel mondo e nell'anima, Parsifal, Dammi solo un minuto, Chi fermerà la musica, Uomini soli (con cui i Pooh hanno vinto Sanremo), La donna del mio amico, ecc. ecc. La sua canzone del cuore è Pierre. Ha scritto con Valerio Negrini la maggior parte dei testi e pubblicato tre album da solista, l’ultimo si intitola Ma che vita la mia. Ha cinque figli: tre femmine, Alessandra (nota stilista, a cui è dedicato l’album omonimo), Valentina e Giulia, e due maschi: Francesco (cantante e conduttore col quale ha partecipato a Sanremo e a diversi programmi televisivi) e Roberto. È nonno di quattro nipoti. Tifoso dell’Atalanta, è appassionato di rugby (tiene alla Benetton Treviso). Ama fare jogging e sono note la sua abilità di cuoco e la sua passione per il buon vino italiano: possiede una cantina con 2500 etichette. Naturalmente, dice lui, prima o poi le berrà tutte.
Roby, il suo ultimo album da solista si intitola Ma che vita la mia. Che vita è stata la sua?
«Una vita sicuramente fortunata, una vita di musica. La musica che ti dà molto e chiede altrettanto. Dal punto di vista professionale non posso che essere contento, dal punto di vista umano ogni mattina ringrazio la buona stella, i santi in paradiso, il cielo e non solo. Nella vita privata, però, probabilmente non sono riuscito a dare ai miei figli quello che avrei dovuto».
Sono cresciuti bene lo stesso…
«Sì, devo dire di sì».
L’assenza del padre ha aiutato…
«Mi sono impegnato innanzitutto a far capire loro il mestiere che facevo e dove andavo a finire quando non ero a casa. Li ho sempre portati ai concerti. Nella mia vita sono stato più sul palco che in famiglia. Fortunatamente loro hanno sempre amato la musica e capito che se uno vuole ottenere dei risultati si deve sacrificare. Questa è la cosa più importante che sono riuscito a trasmettere, senza tanti discorsi perché ai figli i discorsi entrano da una parte e escono dall’altra. Credo siano più importanti gli esempi, e per loro sono stato sicuramente un esempio professionale».
Roby Facchinetti, all'anagrafe Camillo Ferdinando.
Ripartiamo dall’inizio.
«Io sono nato ad Astino e ho passato tutta la mia infanzia in quel posto magnifico. Più passa il tempo più ripenso a quegli anni e a quel mondo che non esiste più. Astino era una vera comunità: i figli erano i figli di tutti, i problemi di una famiglia diventavano i problemi di tutti e tutti si adoperavano per essere utili agli altri. Un mondo che a Bergamo purtroppo non esiste più».
Da che famiglia viene?
«Mio nonno era contadino, i suoi figli, compreso mio padre, hanno abbandonato la terra, ma il Cima, che era il proprietario di tutto quel terreno, ha voluto che i Facchinetti continuassero a vivere lì. Anche perché mio padre era il sacrestano tuttofare. Ogni domenica mattina c’era la messa che raccoglieva le famiglie intorno, venivano anche da fuori e mio padre serviva all’altare. Io stavo con lui e suonavo le campane, così a sei anni iniziai a fare il chierichetto. In sacrestia preparavamo tutto: era una messa bellissima. Poi, sono stato promosso alla chiesa di Longuelo. Ho fatto il chierichetto fino a dodici-tredici anni, ero bravo e potevo anche diventare prete».
Invece ha incontrato la musica.
«Ad Astino c’era un vicino di casa che tutti i giorni suonava l’armonica a bocca. Io ero attratto dalla voce di quello strumento e ho detto: da grande voglio suonare. A sei anni iniziai a studiare fisarmonica, perché i miei non potevano permettersi il pianoforte. Un momento illuminante fu un film. Avrò avuto sette anni...».
Racconti...
«Andavamo a vedere la televisione da un vicino di casa e vidi un film in bianco e nero che raccontava la storia di un bambino prodigio che a dodici anni diresse per la prima volta un’orchestra sinfonica. Alla fine mi rivolsi a mia madre e le dissi: voglio diventare come quel bambino lì. Mi hanno mandato a scuola dal maestro Ravasio per la fisarmonica e poi dal maestro Sala per pianoforte. Non sono diventato direttore d’orchestra ma la mia vita è rimasta legata al linguaggio straordinario della musica».
I Pooh, in una delle formazioni originarie. Roby è il primo a sinistra.
E come è diventato uno dei Pooh?
«Alla fine degli Anni Cinquanta si cominciava a sentire un’aria di rinnovamento e nascevano i primi gruppi. A Bergamo c’erano i Monelli, di cui facevo parte. Andammo a Riccione a fare la stagione estiva e lì conoscemmo un impresario e un cantante, Pierfilippi. Da lì iniziò il mio percorso come professionista. I Pooh avevano inciso il primo 45 giri nel gennaio del ‘66. Io suonavo con Pierfilippi e Les Copains. Alla fine di marzo- aprile allo Sporting di Bologna arrivarono i Pooh come attrazione, lì ci siamo conosciuti. In origine erano un duo: Valerio Negrini, il fondatore che suonava la batteria e aveva cominciato a scrivere dei testi, e Mario Zini Bertoli, il chitarrista. Poi entrarono Mario Goretti, chitarra ritmica, Gilberto Faggioli al basso e Bob Gillot, un tastierista inglese. Per varie ragioni la casa discografica Vedette suggerì loro di sostituire quest’ultimo. Proprio in quei giorni ci trovammo a suonare nello stesso locale e loro mi chiesero di diventare un Pooh».
Della formazione storica lei è l’unico rimasto.
«Due mesi dopo di me entrò Riccardo Fogli che incontrammo al Piper di Milano. Due anni dopo Dodi Battaglia. Nel ‘71 Negrini si era sposato e non se la sentiva più di fare quella vita: gli piaceva il successo ma non tutto ciò che il successo comportava: appuntamenti, tournée, servizi fotografici. Decise di dedicarsi completamente alla stesura dei testi e di girare il mondo. Avrà fatto per tre volte almeno il giro del mondo. Alla batteria lo sostituì D’Orazio».
I primi anni furono pionieristici...
«Era facile fare questo lavoro in quegli anni. È un lavoro che nessuno ti insegna, che impari facendolo. Se non hai la possibilità di suonare e confrontarti col pubblico, crescere diventa difficile. Allora questa possibilità c’era sicuramente. Invece non c’erano il manager, gli uffici, i service: dovevamo acquistare personalmente gli strumenti, ma anche l’impianto audio. E tutto a suon di cambiali».
Nel ‘73 Fogli andò via...
«Si era innamorato di Patti Pravo e lei lo convinse a continuare da solo la professione artistica. Fu un momento tormentato. Al suo posto arrivò Red Canzian e da allora la formazione è sempre rimasta la stessa».
Da sinistra a destra, Dodi Battaglia, Stefano D'Orazio, Roby Facchinetti e Riccardo Fogli.
Lei aveva litigato duramente con Riccardo Fogli.
«Abbiamo discusso molto. Riccardo è di Piombino, io di Bergamo e la base dei Pooh era a Bologna. Con Riccardo ho diviso veramente le cinquanta lire per andare al cinema o per il panino. C’era un rapporto speciale, particolarissimo. All’epoca per me era incomprensibile che lui, dopo aver fatto tanto per arrivare lì, improvvisamente se ne andasse. Eravamo anche giovani e quindi abbiamo affrontato la cosa non sicuramente da persone mature. Con tutto il rispetto che posso avere per una persona che si innamora, lui non poteva mettere in discussione quello che avevamo fatto, la nostra storia. La sua scelta ci ha messo in crisi anche perché lui, all’epoca, era il frontman, il cantante ufficiale. Da un giorno all’altro ci siamo trovati in tre e non sapevamo come proseguire».
Eppure ce l’avete fatta.
«Evidentemente noi Pooh abbiamo avuto una buona stella che è sempre intervenuta nei momenti difficili e siamo riusciti a ripartire».
E a festeggiare i cinquant’anni insieme. Come avete fatto a resistere così a lungo?
«Non lo so spiegare. Di sicuro non è stato facile. Per andare d’accordo ci dev’essere un’intesa, un rispetto, delle alchimie particolarissime. Siamo riusciti a durare nel tempo grazie alla nostra sensibilità e grazie al fatto che ogni volta che ci si concentrava su un progetto arrivavano consensi, andava sempre bene e ci si galvanizzava. Poi abbiamo avuto l’intelligenza di inserire delle regole che tutelassero lo spirito di gruppo. Se tu riesci ad accettare il fatto che il gruppo è più della somma delle sue parti hai un vantaggio indiscutibile. Ognuno di noi poteva valere il 25 per cento, ma insieme facevamo il mille per cento. Riconoscere questo è stato fondamentale: quando hai un’idea e la metti sul tavolo devi accettare che quell’idea non sia più tua ma di tutti, perché viene condivisa, affinata, perfezionata. Noi nel tempo questa cosa l’abbiamo sempre conservata».
Il pubblico vi ha premiato.
«Noi abbiamo amato quello che facevamo, e questo la gente lo ha capito. Ogni disco che i Pooh hanno fatto arrivava sempre al primo posto in classifica».
I Pooh in Parsifal. Davanti, Red Canzian e Stefano D'Orazio. Dietro, Roby Facchinetti e Dodi Battaglia.
Qual è il più bello?
«Il più rappresentativo è Parsifal, perché da lì abbiamo capito di avere delle sfaccettature anche diverse. È stato un momento importante: i Pooh potevano percorrere strade nuove».
Come sono stati gli ultimi concerti?
«La reunion è stata per noi e i per il nostro pubblico un’altra avventura irripetibile, si è realizzato un altro sogno. Abbiamo cominciato a pensare qualche anno fa all’obiettivo incredibile del cinquantennale. Che si avvicinava sempre di più. E ci siamo detti che se doveva essere un gran finale, avremmo dovuto richiamare sul palco Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli».
Hanno accettato tutti e due.
«Riccardo non mi ha neanche lasciato finire di parlare e ha detto: ci sarà da piangere sul palco e giù dal palco. Ha avuto perfettamente ragione. L’ultimo concerto è stato molto difficile. Ogni brano mi dicevo: questo è l’ultima volta che si suonerà insieme. Poi guardavo davanti a me e c’era il pubblico che piangeva. È stata un’impresa anche cantare, perché quando uno è emozionato la prima a risentirne è la voce. La consolazione è stata quella di aver avuto l’opportunità di chiudere la nostra storia in un modo veramente straordinario. La nostra storia si meritava un così gran finale».
Quando andrà in pensione Roby Facchinetti?
«Questa parola non esiste nel mio vocabolario, gli artisti fortunatamente non smettono mai di essere tali. Io adesso ho deciso cosa farò da grande».
Da sinistra a destra, le reunion: Riccardo Fogli, Red Canzian, Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Stefano D'Orazio.
Un nuovo progetto discografico con Riccardo Fogli.
«Ci stiamo lavorando da quattro mesi, uscirà a novembre».
Qual è più bello strumento dopo la voce?
«Il più completo è il pianoforte e poi le tastiere che oggi nel mondo dell’elettronica hanno raggiunto veramente dei livelli straordinari».
Lei ha girato l’Italia in lungo e in largo ma ha sempre vissuto a Bergamo.
«Non c’è nessun altro luogo al mondo in cui mi sento a casa. Qui respiro la mia aria, c’è la mia gente. Nel mondo ci sono posti bellissimi, li ho visti e frequentati, ma dopo qualche giorno devo tornare».