Salemme e la crisi del maschio
Vincenzo Salemme, napoletano della provincia di Bacoli, non ha certo bisogno di troppe presentazioni. Attore, commediografo e sceneggiatore è noto al grande pubblico per le sue performance interpretative spesso giocate sul filo di quel sottile discrimine che separa la comicità dal dramma dell’esistere. Impronta tipicamente eduardiana che rivela la lunga militanza in quella dimensione teatrale prima con il grande Eduardo, poi con il figlio Luca fino al ’92.
Lunghissimo il curriculum dell’attore partenopeo capace di spaziare dal cinema alla televisione, passando con soste significate per il mai dimenticato palcoscenico teatrale. Famosi i tanti suoi lavori di successo che sono stati applauditi nei diversi teatri italiani come ...E fuori nevica, Premiata pasticceria Bellavista, Bello di papà. E la recente trilogia inaugurata da L’astice al veleno, campione d’incassi, e Il diavolo custode che si chiude proprio adesso con il debutto di Sogni e Bisogni, ovvero Rocco e il Tronchetto della Felicità, commedia esilarante, interpretata e diretta dallo stesso Salemme. Ad affiancarlo Nicola Acunzo, Domenico Aria, Floriana De Martino, Andrea Di Maria e Antonio Guerriero.
Lo spettacolo, che ha esordito in prima nazionale al Teatro Politeama Pratese, si ispira a un lavoro scritto nel lontano 1995 con il titolo Io e lui: riferimento evidente al celebre romanzo di Alberto Moravia, che ha per protagonisti Rico e il gioiello più prezioso che possiede, ossia il suo organo sessuale. Nel racconto moraviano ‘lui’ è solo una voce con il quale il legittimo proprietario inizia uno stralunato dialogo. Nella commedia di Salemme accade qualcosa di magico: il ‘signor lui’ assume fattezze umane e pretende perfino di essere chiamato addirittura con l’appellativo di ‘Tronchetto della Felicità’.
Incontriamo l’interprete e regista del lavoro teatrale per sondare con curiosità questa originale chiave di lettura rispetto al testo.
Insomma Salemme, cosa racconta Sogni e Bisogni?
È una metafora per sottolineare quanto siamo spesso dibattuti tra sogni di solito irrealizzabili e il soddisfacimento di bisogni che comportano proprio in periodi difficili enorme fatica.
Ritiene attuale dopo tanti anni questa tematica?
Ne sono certo, anche perché questo è il momento storico in cui la crisi del maschio ha raggiunto un suo nuovo apice, così l’argomentazione moraviana si adatta perfettamente.
Come le è venuta l’idea dello sdoppiamento?
Parlando con un amico, l’attore Francesco Paolo Antoni, abbiamo avuto questa idea che ci divertiva particolarmente: la personificazione del pisello.
Si può indovinare nello spettacolo una lezione morale?
In effetti chiudo con un monologo sulla crisi di identità dell’uomo contemporaneo. A cinquant’anni si perde il lavoro e all’improvviso ci si sente come devirilizzati. Si tratta di una ennesima nevrosi dei nostri tempi.
Un approccio diverso di fare teatro?
Con L’astice al veleno e Il diavolo custode si viene a formare una trilogia: un percorso che, assieme a una analisi psicanalitica, mi ha permesso vere e proprie esplorazioni del sé. Una specie di psicodramma, cosa inedita nel teatro comico.
A quali dei due ‘personaggi’ darebbe ragione?
Direi al ‘tronchetto’, perché sprona il suo titolare a fare di più, a superare la rassegnazione. Però ha ragione Rocco che deve fare i conti con una società in cui i bisogni esigono compulsiva e totale realizzazione, pena il totale fallimento.