Il secondo padre dell'Asia

Santo subito e invece no L'avventura di Giuseppe Vaz

Santo subito e invece no L'avventura di Giuseppe Vaz
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La domanda che sorge spontanea quando si incontra la vita di Giuseppe Vaz, proprio oggi (stanotte, da noi, verso le quattro) proclamato santo da papa Francesco, è come mai abbiano aspettato così tanto a conferirgli la nomina. Questioni burocratiche, si dirà. Ma ci dev’essere dell’altro, perché sarebbero bastati due soli episodi a spazzar via tutta la burocrazia del mondo. Ma prima va detta una cosa: che Giuseppe, che venne al mondo in una famiglia cristiana di Goa (in India) il 21 aprile 1651, era però di discendenza braminica, ossia principesca. In un paese diviso rigorosamente in caste questo fatto ha la sua importanza.

Primo episodio. Ultimi mesi del 1686. Mentre questo signorino di ottima famiglia stava già facendo parlare molto bene di sé per aver avuto ottimi risultati a scuola e aver messo in piedi una meravigliosa Comunità di Filippini (seguaci di san Filippo Neri, detti anche Oratoriani), il Signore decise che era giunto il momento di prendersi cura dei cattolici di Ceylon, fatti oggetto di una terribile persecuzione non da parte dei cannibali - che non c’erano, sull’isola - ma dei civilissimi olandesi della Compagnia delle Indie che, essendo calvinisti, mandavano a morte i fratelli in Cristo ma fedeli al Papa.

Dato che nessun altro voleva affrontare il rischio di finire ammazzato, Giuseppe decise di andare lui a sostenerli. Trovò un sostituto alla guida della comunità e, preso con sé Giovanni - un ragazzo che era per lui come un figlio e che lo seguirà sempre - si fece assumere in qualità di schiavo addetto al carico delle navi e, dopo diversi tentativi andati a vuoto, riuscì a sbarcare sull’isola vestito come richiedeva la sua condizione lavorativa, ossia di stracci.

Il nuovo clima però non li favorì e i due si presero una di quelle malattie tropicali che di solito non lasciano scampo. Rimasero per più giorni mezzi morti sul ciglio di una strada in preda a febbre altissima, fino a che alcune donne non portarono loro del cibo e dell’acqua. Riprese le forze, il falso schiavo cercò immediatamente il modo di mettersi in contatto con i cattolici per i quali si era mosso dal paese natio, ma con tanti calvinisti in giro l’impresa non si presentava agevole. Pensò di fare così: mezzo nudo, ossia in uniforme da mendicante, si mise al collo una corona che per molti non aveva alcun significato ma che alcuni avrebbero certamente riconosciuto come un rosario, e si dette a chieder l’elemosina col suo discepolo. A forza di stendere la mano, finalmente qualcuno che guardava con aria interrogativa quella cosa appesa al collo si fece coraggio. Giuseppe divenne amico di una famiglia più curiosa delle altre e, una volta certo di non essere tradito, si dichiarò per quello che era. E così cominciò la seconda evangelizzazione di Ceylon. Messe di notte, sacramenti conferiti in luoghi nascosti, incontri da setta segreta, anzi segretissima.

Non bastò. Le autorità olandesi, insospettite da certa improvvisa allegria diffusasi tra i loro sottoposti, misero una taglia su padre Vaz - che nessuno tradì e che riuscì a salvarsi - mentre ovunque riprendeva la persecuzione. Ci furono parecchi martiri e molti altri finirono imprigionati. Nel senso che finirono la vita, in prigione. Santo subito, si sarebbe scritto sui cartelli qualche secolo dopo. Invece no.

 

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Secondo episodio. All’interno di Ceylon era rimasto uno staterello autonomo, il regno di Kandy, sul quale regnava un certo re Vilamadharma Surya, che - essendo buddista - non aveva niente contro i cattolici che lì abitavano dunque sicuri, pur non avendo mai visto un prete. I calvinisti pensarono subito che padre Giuseppe avrebbe tentato di raggiungere Kandy e pertanto diffusero la voce che il nuovo arrivato agiva in qualità di spia dei Portoghesi. Trovato e identificato, Padre Vaz fu messo agli arresti, ma siccome i carcerieri capirono subito che quel tizio non poteva essere una spia, ne parlarono al sovrano, che divenne tanto amico suo da affidargli l’educazione del figlio e da lasciarlo libero di predicare e di dir messa dove e quando avesse voluto. Evidentemente l’ascendenza braminica non era, come si dice, acqua. La classe, anche sotto le spoglie di un mendico incarcerato, si riconosce. Se si hanno occhi e orecchie esercitati, ovviamente.

La scelta del re si rivelò vincente anche perché nel 1697 scoppiò nell’isola una epidemia di vaiolo che avrebbe falcidiato la popolazione se padre Vaz e i suoi amici non avessero provveduto a curare i malati e a suggerire norme igieniche come quelle che l’India cerca di diffondere in questi giorni invitando tutti ad usare la toilette invece della strada per smaltire le scorie di acqua e cibo. Il re stesso ebbe a riconoscere ufficialmente che i risultati di questa azione potevano dirsi propriamente miracolosi. E uno così non lo si fa santo immediatamente? No.

Fece anche tantissime altre cose, il nostro padre Giuseppe Vaz. Per esempio tradusse i vangeli in Tamil e Singalese. Imparò una quantità di dialetti locali per rendere più efficace la sua presenza. Organizzò un sacco di comunità, tanto da far dire a papa Giovanni Paolo II che Giuseppe era davvero una persona fuori del comune, una specie di secondo Padre dell’Asia. E così lo fece Beato. Queste poche note sono state scritte solo perché uno veda di cosa è capace il Signore, quando trova qualcuno di cui fidarsi. E poi per dire che Padre Vaz doveva essere, personalmente, un tipo davvero “forte”, come dicono i ragazzi, se tutti i suoi nipoti entrarono nella Comunità dei Filippini, ponendo così fine alla famiglia. A quella di carne, ovviamente.

L’altra, al contrario, si sviluppò al punto che ancor oggi papa Francesco ha voluto ricordare questo strepitoso zio.

 

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