Se solo capissimo il bene che siamo Altro che «la bellezza salverà...»

Pubblicato:
Aggiornato:

«Era meglio se non nascevo», ha detto il figlio ancora implume di una nostra amica pensando che la madre non volesse troncare col marito solo per evitare a lui, piccolo Leopardi inconsapevole, il trauma del tribunale e di tutto il resto. Era meglio se non nascevo, così tu potevi liberarti senza rimpianti di quel peso che ci schiaccia e ci devasta. Saresti libera, senza di me. Il mio non-esserci ti restituirebbe la felicità che ti è impedita. Un suicidio d’amore, quelle parole.

Ci capita, talvolta, di ragionare così, a fronte di un dolore che non sapremmo come evitare ad altri se non donando noi stessi fino al sacrificio della vita. Fino all’inesistenza stessa. Ma è un pensiero da bambini, che non sanno ancora bene come vanno le cose. Non sanno, ad esempio, quanto la loro presenza stessa e la loro vita dia vita e profondità alla vita degli altri. Della madre, in questo caso, cui la scomparsa del figlio consentirebbe forse di liberarsi della pena di un marito indegno, ma a un prezzo decisamente troppo altro, quale il non esserci stato, per lei e per tutti quelli attorno, di un bambino così, di quel figlio meraviglioso. Sarebbe - dopo - forse più libera, la madre. Ma il figlio non sa che, in mancanza di lui, lei non sarebbe più lei, nel senso che giuridicamente sarebbe registrata sotto lo stesso nome e cognome, ma quel nome non si estenderebbe a coprire i baci, le sere, il mare e i pini resi splendenti dal suo bambino. E a che ci vale, allora, la libertà, se a poterne disporre non siamo più noi? Se per poterne disporre dovessimo rinunciare ad essere quel che ci è avvenuto di diventare?

Il mondo, diceva l’orologio di Königsberg - il filosofo Immanuel Kant - è un’idea che non possiamo mai abbracciare tutta. Figli come siamo e siamo stati - tante volte rimproverati, tante volte d’impiccio, sempre inadeguati - non riusciamo a valutare bene quanto della felicità dei nostri genitori dipenda dal fatto stesso che ci siamo. Rompiballe, pesanti, insopportabili quanto si voglia, generatori di dolori, di tragedie, di angosce, purtuttavia ci siamo. L’idea di genitori, i figli non riescono ad abbracciarla. Se solo accettassero l’ipotesi di esser per loro quella fonte insopprimibile di felicità che nessuna angoscia può contraddire, se solo riuscissero a riconoscere il bene che sono per il padre e la madre di cui si accusano invece di essere la palla al piede, la quotidiana sciagura, quanti patimenti i figli risparmierebbero a se stessi.

Il fatto è che il mondo ritiene orgoglio accettare la propria grandezza di uomini vivi. Ma è solo perché il mondo non sa che, per quanto smisurata, la propria grandezza creduta non sarà mai pari a quella reale, quella che abbiamo agli occhi di chi ci pensa, il dono che siamo per coloro che ci vogliono bene.
Ci si sbaglia sempre per difetto. L’orgoglio non consiste nel credersi più grandi di quel che si è, perché ci si può credere solo più piccoli. Consiste nel credersi un altro. E, dunque, nel cancellare - non vedendola - la nostra reale presenza nel cuore dei fratelli, di nostro padre e di nostra madre. È un errore piuttosto comune, credersi altri. Sbagliare il tempo in cui ci troviamo, pensare di vivere in un presente che è già passato o che forse non c’è mai stato.

Da quando il vescovo di Noto, Antonio Staglianò, ha canticchiato Vuoto a perdere durante un’omelia, al posto di Tommaso e Agostino compaiono sempre più spesso le Summae o le Confessioni digitali di Noemi o Mengoni, per non dire di quelle viniliche di Gaber o Jannacci. Anche il papa ha citato Mina di Parole, Parole. E a proposito dell’Italia e del suo marketing globalizzato impazza il principe Myškin, L’Idiota di Dostoevskij, e la sua idea che - detto come andrebbe detto - il mondo sarà la bellezza a salvarlo. Produrre bellezza per salvare il mondo sembra diventato un imperativo categorico, oltre che merceologico. Però, esattamente come quando si parla di sé e del proprio io di solito non si sa di che cosa stiamo parlando, spesso quando ci si richiama agli altri si dimentica l’essenziale. Il principe Myškin, cui gli altri personaggi del libro attribuiscono quella frase, finirà tragicamente, incapace com’è di fare della salvifica bellezza una possibilità di salvezza per sé e per coloro che lo incontrano. Forse dunque quel personaggio l’avrà anche detta, quella cosa, ma certo Dostoevskij non la pensava.

Anche Ivan Karamazov ha detto un sacco cose, ma non rispecchiavano certo il pensiero del suo creatore. Verso il termine del romanzo (a sei settimi giusti giusti) c’è ad esempio questa scena che gli utenti della formula magica dovrebbero conoscere, per non citarla a caso. Il principe è di fronte alla bellissima Aglaja, di cui è innamorato ma che non intende sposare. Vaneggia, come suo solito, e la donna gli obietta:

«Ascoltate una volta per tutte» Aglaja non ce la faceva più, «se vi metterete a parlare di qualcosa tipo la pena di morte, o le condizioni economiche della Russia, oppure che "la bellezza salverà il mondo", allora... io sarò contenta e riderò molto, ma... vi avverto in anticipo: non osate più venirmi davanti agli occhi! Mi sentite, sto parlando sul serio! Questa volta sto parlando proprio sul serio!»
Ella aveva pronunciato sul serio la sua minaccia, tanto che si percepì qualcosa di insolito nella sua voce e nel suo sguardo, qualcosa che il principe non aveva mai notato prima, e che non assomigliava proprio a uno scherzo.

Pensare di essere contemporanei perché ci si richiama a Dostoevskij, che strana idea è mai questa? E agire e progettare in base all’assioma della bellezza salvifica, quale ulteriore illusione, soprattutto per i dostoevskiani ortodossi!

Si è fatto un vero e proprio abuso della bellezza - come recita il titolo di un grandissimo saggio del filosofo e critico Arthur C. Danto - attribuendole poteri che non ha e quindi destinando se stessi e gli altri a sicura catastrofe in caso la si seguisse. Il fatto è che non solo non siamo contemporanei quasi nemmeno a Noemi, figuriamoci se lo siamo del gigantesco Fedor Mihailovič. E rischiamo di non esser contemporanei nemmeno di noi stessi, o di essere spaesati rispetto a noi stessi fino a quando non ci sarà dato di accettare di essere - per noi stessi, per il mondo e per il suo tempo - un bene a noi stessi incognito, ma in ogni caso infinitamente maggiore delle colpe che ci attribuiamo.

Seguici sui nostri canali