Dalle case alle scuole, fu una rivoluzione

Il colorato secolo della Fòrmica® Sostituì la Mica, poi venne il Moplen

Il colorato secolo della Fòrmica® Sostituì la Mica, poi venne il Moplen
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Si capisce subito che a Stefano Salis, che ha scritto un bellissimo pezzo sul domenicale di Il Sole24ore, piace la Fòrmica®, ma soprattutto va matto per il libro che ne celebra i cento anni: AA.VV., Formica Forever, Metropolis Books, 2014, che al momento è disponibile solo in tre copie presso una grande libreria milanese.

Discutiamo allora del materiale, non del libro. A suo favore va il fatto che è nato da due ragazzi - i creatori, più un terzo: il banchiere Tomlin che si fidò di loro ed erogò il primo prestito di $7.500 - che credettero in quel che stavano facendo. I due si chiamavano Daniel J. O’Conor e Herbert A. Fabre e lavoravano alla Westinghouse Electric di Pittsburg in Pennsylvania. Pensando di aver trovato il modo di produrre un isolante che avrebbe potuto sostituire la fragilissima mica - qualche vecchio lettore se la ricorderà - lo presentarono ai loro capi, che lo rifiutarono. I due si licenziarono, chiesero il prestito e lo ottennero, e si misero al lavoro in casa del secondo, Fabre. Il nome era già nelle cose: il nuovo materiale stava al posto della (for, in inglese) mica. Nella lingua di Pittsburg non c’è alcuna possibilità di confusione con i piccoli insetti neri, che da noi è stata superata spostando l’accento.

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1970s Formica advert
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A Formica wood effect paneled kitchen, 1950s
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An office with an old computer set-up from 1960, US
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Diner booths with formica table and bench seats
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Frontispiece from a 1955 housewares catalogue
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People queue up at an American bank in the 1960s
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Formica kitchen
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Non solo l’isolante funzionò a meraviglia, ma tredici anni dopo, grazie all’aggiunta di uno strato di resina melamminica (un indurente) i grandi fogli di laminato plastico furono pronti per diventare quel che sappiamo: gli invasori dell’arredamento mondiale, i terroristi del mondo del legno.

La fòrmica costava poco, non si rompeva facilmente, si lavava con un panno e col detersivo. A meno di non lasciarci sopra il ferro da stiro acceso non si macchiava mai. Sui banchi di scuola, per inciderla, non bastava un comune temperino. Si coniugava perfettamente con l’alluminio e l’acciaio. Si poteva ottenere sia in tinta unica che in infinite variazioni imitative di materiali più nobili. La Westinghouse è ancora lì che si morde i gomiti.

Grandi architetti e designer ne hanno tessuto l’elogio e in effetti non soltanto nel libro da cui siamo partiti, ma anche nelle grandi mostre di oggetti che hanno segnato la nostra vita in tutto il mondo quello della Formica si presenta come un vero imperialismo arcobaleno.

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Detto ciò ci permettiamo di aggiungere: Sigh! I telefoni in bachelite, le penne stilografiche nel medesimo materiale, le radio che ci giungevano dall’America, le venature del castagno, della quercia, del mogano, sono un patrimonio di sensazioni tattile-visivo che non vorremmo mai scordare. E anche, lo diciamo sussurrando piano, un po’ di sporco andrebbe salvaguardato nelle nostre vite, come il fruscio sui vecchi dischi a 78 giri. È solo nostalgia, lo sappiamo: la fòrmica è giustamente igienica, è giustamente cheap, è giustamente tutto. Ha vinto e tanto basta alla sua gloria.

Poi, ma molto poi, venne il Politecnico di Milano, venne Giulio Natta, e fu il Moplen. Che la Montecatini, al contrario della WE, non si lasciò sfuggire.

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