Riposatevi un po'

Suor Sujenne (delle suore di via Tassis), che cura la stanchezza delle donne bergamasche

Lavora in università e organizza incontri nel convento di Città Alta al sabato, per aiutare mogli, single e divorziate a trovare se stesse

Suor Sujenne (delle suore di via Tassis), che cura la stanchezza delle donne bergamasche
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di Ettore Ongis

«Mi chiamo Sujenne, è un nome dei nativi americani che vuol dire primavera. Lavoro in università, ma la mia professione principale è essere suora». Sujenne Forlani ha 45 anni e un sorriso contagioso. Vive nel convento delle Suore domenicane del Santo Rosario di Melegnano, in Città Alta. Che detto così, non le conosce nessuno. Sono più note se si semplifica: le suore di via Tassis.

La loro è una piccola congregazione e a Bergamo sono in cinque, tre anziane più la madre generale, suor Sonia Pellegrinelli, anche lei bergamasca di Ubiale Clanezzo, e suor Sujenne. La loro è una casa di accoglienza e due anni fa si sono inventate una proposta per sole donne, o meglio “per tutte le donne in cerca di ristoro”. La risposta è stata sorprendente.

Suor Sujenne, dove sono andati a prendere questo nome i suoi genitori?

«Mi sarebbe piaciuto che dietro ci fosse una di quelle belle storie esotiche, invece no. Banalmente, mio papà e mia mamma, che allora era incinta, erano a un matrimonio e una bimba si era incuriosita per il pancione. A un certo punto mio papà, che sperava di avere un maschio, le ha detto: “Se è una femminuccia la chiamiamo come te”. E hanno mantenuto la promessa».

Vuol dire che c’è un’altra donna in Bergamasca che si chiama Sujenne?

«Ce ne sono almeno tre».

Che cosa ha studiato?

«Mi sono laureata in Lingue all’università di Bergamo. Ho frequentato qui sotto, al Seminarino, per molti anni, e non mi ero mai accorta che accanto ci fosse un convento, non ci avevo fatto caso. Dopo qualche anno sono finita qui».

Si è finalmente accorta.

«All’inizio mi ero rivolta alle domenicane di clausura di Azzano - sono originaria di lì - e sono state loro a farmi conoscere queste suore. E avevano ragione: non sono fatta per la clausura».

Era quello che sognava di diventare?

«Inizialmente volevo fare la docente universitaria di letteratura russa, poi ho capito che non era
la mia strada, ma ho comunque iniziato a lavorare in università. Mi è piaciuto. Sono stata precaria per anni, poi ho vinto il concorso. A quel punto ero sistemata, ma non ero contenta e ho bussato al convento».

Però lei lavora ancora in università.

«Sì, certo, sono impiegata amministrativa. Seguo il centro di ricerca che si occupa di formazione degli insegnanti che vogliono specializzarsi o conseguire l’abilitazione. Fino adesso avevo un part time di 30 ore, dal primo luglio 24 ore».

Nessuna va più suora, che cosa le è venuto in mente?

«Me l’hanno chiesto anche i miei genitori. E i ragazzi a volte non sanno neppure chi siamo. L’altro giorno un bambino ha visto il velo bianco e mi fa: “Ma tu sei un pasticciere?”. “No, sono una suora”. “E che cosa fanno le suore?”».

Appunto, che cosa fanno?

«Sembra una scelta fuori dal tempo, ma in realtà è ancora molto attuale. Siamo chiamate a essere un segno per gli altri. Ha presente quando va al supermercato e dietro c’è scritto: “Chiedi a me”. Ecco, se indossa un vestito da suora, per qualsiasi motivo chiedono a lei» (...)

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