Tra i prigionieri illustri di Hitler La storia triste di Mafalda di Savoia
Era un treno speciale, quello che si fermò alla stazione di Villabassa il 28 aprile 1945. L’Alta Pusteria ne aveva visti passare molti, di treni carichi di persone diretti verso i campi di concentramento che si erano spalancati nel cuore del continente europeo. Eppure quel treno era diverso. Nonostante la destinazione fosse la stessa, gli uomini e le donne che vi erano stati fatti salire si distinguevano dagli altri. Non era gente comune.
Il libro che ricostruisce la storia. Gli invisibili, scritto da Mirella Serri e recentemente pubblicato da Longanesi, ricostruisce la storia dei prigionieri del treno passato da Villabassa. Si trattava di teste coronate, ministri e politici, discendenti illustri di uomini illustri. Non erano tutti oppositori del nazismo, né ebrei o omosessuali. Sicuramente non erano zingari. Eppure Hitler li volle mettere nei campi di concentramento di Dachau, Flossenburg e Buchenwald. L’obiettivo non era di sterminarli. Al contrario, il capo della Germania nazista voleva tenerli in vita, perché sperava di poterli usare come merce di scambio una volta conclusa la guerra. Che, secondo le sue previsioni, avrebbe dovuto terminare con una grandiosa vittoria del Terzo Reich. La storia disattese le previsioni di Hitler, per nostra fortuna, e quei prigionieri illustri furono, sostanzialmente, dimenticati. Di loro si ricordano solo le cronache locali, oppure vengono citati in occasioni particolari, di nicchia. Fino ad ora, fino al libro di Serri, sono rimasti nell’ombra.
I prigionieri speciali di Hitler. Tra questi c’era Leon Blum, ex primo ministro del Fronte Popolare francese, Kurt Alois von Schuschnigg, ultimo cancelliere austriaco antinazista, e Alexandros Papagos, ministro greco della Guerra che aveva respinto l’attacco italiano, nel 1941. C’era Frits Thyssen, imprenditore che appoggiò l’ascesa del nazismo, ma che si dichiarò contrario alla guerra, e c’era pure Mario Badoglio, figlio del generale Pietro, oltre a qualche congiurato del complotto contro Hitler. Anche alcuni gerarchi fascisti decaduti erano entrati a far parte del club esclusivo di prigionieri scelti dal Fuhrer. Tra i prigionieri, infatti, si contavano Tullio Tamburini, ex capo della polizia di Salò, e Eugenio Apollonio, braccio destro del primo. C’erano anche capitani, sindaci, giornalisti, duchesse e duchi, cabarettiste, teologi e professori di sedici nazionalità diverse. E persino il genero del re d’Italia, Filippo d’Assia.
Mafalda di Savoia. Anche la consorte di Filippo, Mafalda, era stata resa prigioniera, ma non si trovava sul treno, e poi sul convoglio, che avrebbe portato il manipolo all’interno dell’orrore d’Europa. Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III, si trovava già a Buchenwald. Serri la descrive come una donna fragile, di corporatura minuta e di una bellezza particolare. Amava il marito, il principe tedesco Filippo, Langravio d'Assia-Kassel, nonostante fosse omosessuale e la tradisse spesso. I suoi sentimenti, del resto, erano ricambiati da Filippo, nella forma di un affetto tenero, quasi fraterno. Nel 1943 volle partire per la Bulgaria, per andare a confortare la sorella Giovanna, il cui marito, re Boris III, era agonizzante. Lasciò i suoi quattro figli sotto la protezione del cardinal Montini, futuro Paolo VI.
La principessa Mafalda bambina.
La principessa Mafalda con i figli (da sinistra a destra: i principi Enrico, Maurizio e Ottone d'Assia).
La principessa Mafalda.
La principessa Mafalda con il figlio e il marito, il principe tedesco Filippo, Langravio d'Assia-Kassel.
Dopo la resa italiana agli angloamericani, tuttavia, Hitler emanò un mandato di arresto per il re, la regina e il loro primogenito. I tre riuscirono a fuggire, ma non così Mafalda, che fu arrestata dalle SS poco dopo avere oltrepassato le Alpi. A Buchenwald ricevette un trattamento “di favore” e fu messa insieme ai prigionieri che non erano tenuti a lavorare, con lo stesso vitto di cui godevano le SS. Durante un bombardamento anglo-americano avvenuto nel ’44, rimase però sotto le macerie della baracca a cui era stata assegnata. Aveva riportato serie ustioni e aveva quasi perso un braccio, ma forse si poteva ancora salvare. L’operazione chirurgica a cui fu sottoposta, tuttavia, fece in modo di portarla alla morte con spietata precisione. La discendente del re italiano morì così in un campo di concentramento e probabilmente l’ultima cosa che riuscì a sentire fu la voce dei due rumeni che la tirarono fuori dai resti della baracca, mentre la chiamavano «Frau Abeba», in memoria della vittoria italiana in Etiopia. La storia di Mafalda è sopravvissuta per caso, grazie al racconto di un altro prigioniero italiano, Leonardo Bovini.