Tre mesi di vacanza son pochi
Tre mesi di vacanza sono troppi? Troppo pochi, se mai. A meno che non cambi radicalmente il modello di scuola e l’esperienza che si fa al suo interno. Una speranza utopica, quest’ultima. Un’idea non a tema, sul momento. Basterebbe leggere le dichiarazioni dei parlamentari a proposito dei lavori che gli studenti potrebbero svolgere nel periodo estivo per capire che tutto quello che è nato dalla improvvida dichiarazione del ministro Poletti finirà - nel caso migliore - in una bolla di sapone. «I miei figli d'estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse. Sono venuti su normali, non sono speciali», ha affermato al Palazzo dei Congressi di Firenze guadagnandosi l’applauso dei presenti. «Non troverei niente di strano se un ragazzo lavorasse tre o quattro ore al giorno per un periodo preciso durante l'estate, anziché stare solo in giro per le strade».
A parte il fatto che le cassette si possono spostare anche durante l’anno - se si abita in città e ci si sveglia presto -, il ministro dovrebbe sapere che andare a giro per certe strade è un’attività nobilitata da precedenti di pregio. La ministro Giannini, elencate le cifre a disposizione dell’alternanza scuola-lavoro nella riforma, ha detto: «Fare esperienza di lavoro durante la scuola è utile non solo per diminuire la dispersione e facilitare l'inserimento immediato nel mondo del lavoro, ma anche per orientare le scelte di chi andrà all’università».
Il ritardo nell’inserirsi nel mondo del lavoro dipenderebbe dunque dalla scuola? Poco plausibile. Le ha fatto eco la senatrice Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd: «Le riflessioni del ministro Poletti sono condivisibili, sono già molte le scuole che d'estate sono aperte per corsi di recupero, stage di lavoro, attività motorie e di cittadinanza attiva. Anche il ddl del governo Renzi va in questa direzione e prevede istituti sempre più disponibili alle esigenze degli studenti e delle famiglie, anche al termine delle lezioni». D’accordo: che le scuole restino aperte come luogo di ritrovo strutturato anche nei mesi estivi sarebbe una bella cosa. Per i genitori che non sanno dove collocare i figli sarebbe una manna. Ma questo va nella direzione della scuola-parcheggio. Non c’è niente di nuovo rispetto ai soliti auspici.
Riassumendo: quello che colpisce è l’orizzonte culturale e sociale che la proposta mette in luce, la consapevolezza che gli intervenuti mostrano di avere rispetto alla situazione del nostro Paese. Solo alcune osservazioni.
L’accenno alle cassette spostate al mercato riduce sensibilmente l’area del termine “scuola”, perché a lavorare alle Halles - che per altro non ci sono più - potranno andarci solo i ragazzi delle superiori, si immagina. Dunque le famiglie con piccoli a carico - dalle medie in giù - non verrebbero toccate dal provvedimento. I nonni non si immaginino dunque di potersi dare malati. Si scrive “scuola” ma si deve leggere “superiori”.
I ragazzi delle superiori inoltre, diversamente da quanto pensa il ministro, non se ne stanno tutti soli in giro per le strade, l’estate. Non sappiamo dove trascorra le vacanze, ma se per caso frequentasse la riviera romagnola o altre riviere si accorgerebbe che in tutte le aziende a conduzione familiare i ragazzi passano l’estate lavorando (e anche di brutto, e spesso con qualche difficoltà di legge). Lo stesso vale in montagna: nelle valli altoatesine sono un’infinità i ragazzi - e anche i bambini - che coi loro grambiulini blu danno una mano a caricare il fieno e si impegnano in altre faccende. Per esempio nella gestione dei rifugi. E non parliamo di quel che succede nell’area linguistica che vanta poeti come Valentino Rossi, Sic Simoncelli, Marco Melandri o Loris Capirossi: tutti con le mani sempre sporche di morchia, da quelle parti. Dunque, che ci guadagnerebbero costoro a dover lavorare in altro modo?
Il termine “lavoro”, però, non può limitarsi all’ambito del turismo alberghiero o all’agricoltura o ai motori (gli scooter, a Rimini e dintorni). Esiste anche - e la mancanza di sottolineature ministeriali in questo senso è preoccupante - il lavoro cosiddetto intellettuale. Presidi intervenuti nel dibattito hanno voluto rimarcare che un intervallo lungo tre mesi produce spesso la dimenticanza di tutti o quasi i contenuti dell’anno precedente. Ma non sono i tre mesi a generare l’oblio: è il modo con cui i contenuti sono proposti, il quadro normativo asfittico in cui sono collocati. Quelli cui piace imparare non aspettano altro che le vacanze per potersi dedicare ai loro lavori prediletti consistenti nel leggere i libri preferiti, visitare mostre e musei, prender parte a corsi di vario genere, fare ricognizioni in teatri di guerra, studiare la morfologia dei terreni. Ben sapendo che niente di tutto questo troverà poi un qualsiasi riconoscimento nella scuola in cui torneranno.
Il presidente Mattarella, nel solo video che si conosceva di lui prima dell’elezione a Capo dello Stato, indicava come la più significativa caratteristica della scuola che aveva frequentato l’uso di consentire ai ragazzi di studiare argomenti non obbligatori, di approfondire a loro piacere parti del programma che non potevano essere affrontate in classe, di interloquire positivamente coi docenti. Anche il professore di Enrico Fermi ricorda - in altro video - come, avendo intuito le capacità dell’allievo, lo avesse spronato ad andare avanti nella direzione che aveva intrapreso. Certo, non tutti gli scolari sono Enrico Fermi, ma non è neanche vero che tutti gli scolari passano l’estate a bighellonare. Molti pensano - al contrario - che è il tempo di scuola a distrarli dai loro interesse veri. Che - soprattutto oggi - non sono solo i libri. C’è anche chi passa il suo tempo a cercar di violare siti importanti: se ci riesce e lo scoprono ha una vita di successo assicurata. Potremmo fare i nomi. C’è chi non aspetta altro che la fine delle interrogazioni per mettersi a lavorare con Arduino, la scheda più gettonata di tutta l’elettronica. Altri non vedono l’ora di poter girare il mondo fotografando come Sebastiấo Salgado, come Steve Mc Curry o Jacques Henri Lartigue. O arrampicando come Bonatti. Non sono tutti a giro per strada a far nulla.
Per questo l’idea che si possa progettare l’estate dei nostri ragazzi partendo da un’immagine così degradata del loro tempo e delle loro attività qualche preoccupazione la mette. Bisogna cambiare la forma del tempo-scuola perché i ragazzi non dimentichino in due mesi quel che hanno fatto nei nove precedenti. Anzi: perché non lo dimentichino già durante questi ultimi. Perché se poi, durante l’estate, se ne stanno lì a far nulla (nulla davvero, non il nulla di leggere o di trafficare per inventarsi un’App) non è colpa delle vacanze, ma di come ci sono arrivati. E dunque se anche si prolungasse quel tempo invernale e quel modo miope di intendere il mondo, il lavoro e la cultura non solo non cambierebbe nulla, ma forse sarebbe anche peggio per tutti.
La scuola la smetta di pensare di agire ancora in termini di monopolio: il mondo è grande e ricco di opportunità per tutti. I soldi che si spenderebbero nel progetto (!) Poletti-Giannini spendiamoli per consentire agli studenti di incontrare occasioni all’altezza dei loro desideri e in grado di fargliene sorgere di nuovi. Le cassette al mercato, ci sia permesso di ricordarlo, ci sono i robot per spostarle. E dove non ci sono è per via della nostra arretratezza. Il nostro Paese uscirà dalle secche quando i suoi ragazzi progetteranno nemmeno i vecchi droni - che ormai li sanno fare tutti - ma le aerovie che ne regolano il traffico. Vacanze che servono al mondo di ieri pensate con modelli di società di avantieri sarebbero davvero una sciagura.