In ricordo di "don Roberto", morto cinque anni fa

Il vescovo che non voleva esserlo La lezione di Amadei su Agostino

Il vescovo che non voleva esserlo La lezione di Amadei su Agostino
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Ricorre oggi il quinto anniversario della morte di monsignor Roberto Amadei, vescovo di Bergamo dal 1991 al 2009. Alle 18 in Cattedrale il vescovo Francesco Beschi presiederà una Messa in ricordo del suo predecessore. Monsignor Amadei, oltre che pastore, fu uno studioso di altissimo livello, profondo conoscitore della storia della Chiesa e delle opere dei Padri. Nel dicembre 2003 venne invitato dall’università di Bergamo a tenere una lezione su Sant’Agostino, del quale aveva letto tutte le opere. La riportiamo integralmente perché in questo testo c’è molto anche della figura del vescovo Roberto, un uomo che, come il grande santo di Ippona, ha speso la propria vita per il bene degli altri senza chiedere mai nulla per sé.

Il mio intervento non è quello di uno studioso di Sant’Agostino ma quello più modesto di un vescovo che con ammirazione e tremore rilegge la vita e l'insegnamento del vescovo Agostino per essere sostenuto e illuminato nel cammino quotidiano. È lontano nel tempo (354-430), è per me inarrivabile nella sua santità, nella singolare profondità del suo pensiero, nel modo di servire la Chiesa, la società e le singole persone. Però lo sento vicino perché ha svolto il mio stesso ministero, perché ha vissuto (come noi oggi) un periodo difficile segnato dal crollo di una civiltà, quella dell'Impero Romano, e dalla fatica di riflettere per gettare le fondamenta di un modo nuovo di considerare e vivere l'esperienza personale e la convivenza umana; e immergendosi, con intelligenza e passione in questo travaglio, ha rivisitato in modo profondo e originale le questioni fondamentali del credente cristiano, che sono poi quelle dell'uomo.

1. Dopo la sua conversione culminata nel Battesimo ricevuto a Milano da Sant'Ambrogio (24 aprile 387), non pensava e non desiderava di divenire sacerdote; suo ideale era la ricerca appassionata della verità, ormai identificata in Gesù Cristo. Perciò, dopo il ritorno in Africa, si è dedicato alla vita monastica caratterizzata da povertà, dallo studio e dalla preghiera. Ma la sua fama presto si diffuse a tal punto che egli coscientemente non frequentava città vacanti di vescovo per non correre il pericolo di essere acclamato direttamente dal popolo come - a volte - accadeva nella chiesa antica. Nella primavera del 391 Agostino si recò dunque nella città marittima di Ippona; era tranquillo in quanto la comunità era retta da un uomo saggio, di nome Valerio, anziano ma ancora in forze per guidare la comunità stessa. Una domenica, nella grande Chiesa di Ippona, Agostino confuso in mezzo al popolo, prendeva parte alla celebrazione dei santi misteri. Durante il discorso - ad un certo punto... quasi incidentalmente - il vecchio vescovo dichiara di aver l'intenzione di eleggere un prete. Infatti Valerio, greco di nascita, parlava il latino in modo mediocre e aveva diverse volte manifestato il desiderio di poter disporre di un prete colto che potesse predicare bene. Immediatamente alcuni uomini che avevano notato Agostino in città nei giorni precedenti, mettono decisi le mani su di lui, lo trascinano davanti alla cattedra sulla quale è assiso Valerio e chiedono che divenga prete della loro comunità. Agostino tenta di difendersi, rifiuta, si dibatte sino a sciogliersi in lacrime… ma inutilmente. Valerio gli impose le mani. E dopo alcuni anni (395), temendo che un'altra chiesa senza vescovo potesse portarglielo via, scrive in gran segreto al primate di Cartagine per ottenere il permesso - contravvenendo alla prassi del tempo - di consacrarlo vescovo suo coadiutore con diritto di successione. Il permesso è accordato e anche in quel caso la vocazione all'episcopato di Agostino avviene per acclamazione di popolo. Per Agostino l'episcopato non era certo una carica onorifica desiderata e desiderabile; anzi un peso, una sarcina, un compito e quindi un servizio. Egli mai lo amò anche se lo accettò e lo esercitò con amore: «Per quanto riguarda il mio comodo – scrive ai monaci di Cartagine verso il 400 - preferirei molto più lavorare con le mie mani ogni giorno ad ore determinate, come si fa nei monasteri bene ordinati, ed avere poi altre ore libere per leggere o pregare o per studiare le scritture, invece di soffrire il tormento e le perplessità delle questioni altrui... Ma - continua - siamo i servi della Chiesa, e servi, soprattutto, dei suoi membri più deboli».

2. Questo servizio ha assorbito le sue giornate e le notevoli ricchezze della sua personalità: «Siamo vostri pastori, con voi siamo nutriti (del Signore). Il Signore ci dia la forza di amarvi a tal punto di poter morire per voi, o di fatto o col cuore». Presentando il suo successore (26 settembre 426) poteva dire: «Il mio tempo libero è sempre stato pieno di molte occupazioni».

2.1 C'era l'impegno quotidiano per la gente di Ippona che poteva frequentarlo liberamente a qualsiasi ora; vi era l'intervento presso le autorità civili a favore dei fedeli quando lo riteneva opportuno soprattutto per gli indifesi e i più poveri. Era un vescovo che sentiva la responsabilità del suo popolo in tutti i particolari della vita soprattutto quando l'autorità politica latitava o era manifestamente ingiusta. Ha predicato abbondantemente, usando un linguaggio non sempre retoricamente perfetto ma semplice perché il popolo capisse i suoi argomenti e i suoi esempi spesso tratti dalla vita quotidiana. «Preferisco essere criticato dai grammatici che non essere capito dal popolo».

2.2 È sempre stato pronto a rispondere a qualsiasi domanda o sollecitazioni venute da qualsivoglia interlocutore; a scrivere moltissime lettere, prendendo spunto anche da argomenti secondari, per approfondire elementi fondamentali dell'esperienza cristiana e umana.

2.3 Ai doveri episcopali per la diocesi d'Ippona si aggiungevano quelli, non meno pesanti, che gli venivano dalla sollecitudine per la Chiesa africana, e che l'hanno costretto a viaggiare molto, tanto da essere definito «un uomo continuamente in viaggio».

2.4 Quest'uomo così occupato, così presente per quasi 40 anni nella vita della Chiesa e della società africana, ha scritto moltissimo. È stata la sua «carità culturale». Nell'amore sincero e profondo verso le singole persone, la Chiesa e la società, ha compreso che il servizio all'uomo non può esaurirsi nelle risposte alle necessità quotidiane ma occorre, soprattutto nei periodi di cambiamenti, affrontare con riflessione seria e profonda le questioni fondamentali della vita umana, dell'esperienza religiosa e del senso della storia umana. Per questo ha affrontato i problemi metafisici nella polemica contro i Manichei; quelli riguardanti la natura della Chiesa contro i Donatisti, la teologia della storia contro i pagani, il rapporto tra la libertà umana e l'azione di Dio contro i Pelagiani. Erano questioni dibattute dagli intellettuali ma con delle conseguenze nella vita sociale e nel modo di concepire l'uomo. In una parola, ha compreso la necessità di aiutare le masse, i politici, gli intellettuali e i responsabili delle comunità ecclesiali a leggere cosa stava maturando nella storia, aiutarli a non smarrire la passione per la ricerca instancabile della verità, cioè dell'uomo considerato nella sua integrale complessità, dell'uomo in relazione con gli altri, con le cose e con le diverse vicissitudini.

2.5 Questa «carità culturale» lo ha sempre accompagnato pure nelle numerosissime polemiche. Unicamente preoccupato di cedere alla verità - «la cui vittoria non umilia, ma esalta» - rispettava gli avversari studiandone e riportandone con fedeltà gli scritti. Non confondeva errante ed errore; questo era analizzato e confutato con precisione, l'altro rispettato e considerato con fiducia e amore. Si è sempre lasciato guidare dalla probità scientifica e noncuranza dei propri interessi personali, dalla preoccupazione di guidare l'interlocutore o il lettore a individuare il centro del problema e a giudicare con onestà le diverse argomentazioni. Desiderando che tutti, iniziando da lui, fossero discepoli della verità: «In quanto a me non esiterò a cercare se mi trovo nel dubbio, non mi vergognerò d'imparare se mi trovo nell'errore. Perciò... prosegua con me chi insieme a me è certo; cerchi con me chi condivide i miei dubbi; torni a me chi riconosce il suo errore, mi richiami chi si accorge del mio».

2.6 Ha servito i suoi contemporanei con la testimonianza di come si deve spendere la propria vita per il «bene» degli altri; «bene» dell'altro messo sempre al centro delle sue preoccupazioni. Proprio sul finire della sua vita, interrogato se fosse lecito ai vescovi e ai presbiteri abbandonare la propria Chiesa rispose: «Quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno». Lui non ha mai pensato ai propri interessi ma ai bisogni degli altri. Anche al bisogno di considerare ancora possibile una convivenza pacifica e giusta, nonostante i disordini e le lotte ecclesiali e sociali, l'oppressione statale e l'uso facile della violenza. Ha tentato di rispondere a questo bisogno, reso acuto dai crescenti disordini, con gli scritti e vivendo e diffondendo la prassi della vita comune dei responsabili delle comunità ecclesiali; vita comune caratterizzata dalla povertà individuale, dallo studio, dalla preghiera e dall'apertura a tutti sia per gli aiuti materiali che per quelli morali e religiosi. Tale modo di stare insieme praticato anche da altri ravviva la speranza nella possibilità di instaurare tra le persone dei rapporti più umani. Anche questa esperienza diceva quanto fosse partecipe delle problematiche del suo tempo offrendo il suo aiuto con le parole ma soprattutto con questi esempi che rendevano più credibile quanto scriveva a un funzionario imperiale: «Titolo più grande di gloria è proprio quello di uccidere la guerra con la parola, anziché uccidere gli uomini con la spada e procurare e mantenere la pace con la pace e non già con la guerra».

Questo vario e intenso servizio, offerto a tutti, mai avrebbe desiderato di svolgerlo nel ministero episcopale; lo ha vissuto perché discepolo fedele del Cristo servo: «Servi bene a Cristo, se servi coloro a cui Cristo ha servito», cioè a tutti gli uomini. Come ho detto all'inizio, sia pure da molto lontano guardo così il pastore Agostino, desiderando per me e per la Chiesa bergamasca di meglio vivere i diversi aspetti del servizio all'uomo concreto richiestoci dalla nostra vocazione. Con molto rispetto e altrettanto affetto mi permetto di augurare alla nostra cara Università, e in particolare alla facoltà presente in questo complesso, di non dimenticare l'urgente bisogno, soprattutto oggi, di avere persone non soltanto competenti nella loro specializzazione, ma dotate di autentica sapienza, cioè capaci d'interrogarsi continuamente - dialogando e ricercando con tutti - sulle modalità di porre l'uomo concreto, ogni uomo, al centro di ogni progresso e di ogni attività; capaci di ascoltare e lasciar risuonare nella coscienza personale e in quella sociale le domande che riguardano il senso dell'esistenza. Sapienti abituati a non accontentarsi mai delle risposte a tali domande che girano nel mercato dei mezzi di comunicazione, ma a ricercare continuamente aprendosi disinteressatamente alla verità che progressivamente si scopre. Persone sapienti (sagge) in grado di offrire nel servizio professionale, quello della «carità dell'intelligenza», che permette di intravedere cammini più umani per tutti e di offrire speranza anche nei momenti di oscurità. Come ha operato Sant’Agostino per la società del suo tempo.

Roberto Amadei, vescovo di Bergamo

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