«Vi racconto nostro padre Mimmo» Un omaggio a un grande pioniere
Foto ©Bergamopost/Antonio Milesi
Domenico "Mimmo" Amaddeo è morto sabato 19 agosto, a 92 anni. Il pioniere della pizza a Bergamo aveva festeggiato un anno fa con la moglie e i figli i sessant'anni di attività del suo arcinoto e amato ristorante sulla Corsarola, dove aveva davvero fatto la storia. Nel 2015, in occasione del suo 90esimo compleanno, attraverso i racconti del figlio Robi, avevamo delineato un suo ritratto. Un omaggio che rinnoviamo oggi.
Mimmo Amaddeo, fondatore del noto ristorante in Città Alta, il 5 agosto ha compiuto 90 anni. È stato festeggiato dalla sua famiglia come si conviene a un primattore, e cioè andando in scena. Fuor di metafora, il locale è rimasto aperto come in un giorno qualsiasi, quasi a dire che lì tutti i giorni è una festa. C’erano i sette figli con le rispettive famiglie, ma erano mischiati alla clientela e mentre uno lavorava altri stavano al tavolo del patriarca. Poi magari un altro dava il cambio.
Mimmo e la moglie Angelina sono fra le persone più note a Bergamo. Perché fanno i ristoratori da una vita, ma anche a motivo del fatto che da decenni se ne stanno fissi al loro posto, seduti al tavolo all’ingresso del ristorante: “buongiorno”, “buonasera”. Due colonne oltre alle quali si mangia bene e si sta insieme in allegria.
Noi di BergamoPost abbiamo pensato che per parlare dei 90 anni del signor Mimmo sarebbe servito testimone d’eccezione. Chi? Una telefonata e la risposta è venuta da sé. Roberto è il figlio che per primo ha deciso di proseguire l’attività di famiglia: «Perché non ci racconti tu chi è tuo padre?». Detto, fatto. L’unica cosa che ci resta da aggiungere sono gli auguri al signor Mimmo. Buona lettura.
[Mimmo con la moglie Angelina]
«L’ultimo scontro fra me e mio padre risale a pochi giorni fa. Per me lavorare con lui è sempre stato difficile, perché ancora oggi Mimmo interviene, a volte anche quando sto spiegando le cose da fare ai collaboratori. Per fortuna in questo mi aiuta mio fratello Massimo, che è molto più equilibrato di me. Nei giorni scorsi, quando c’è stato l’uragano, ho chiamato al ristorante per avvisare di riapparecchiare fuori, in veranda. Arrivo e non c’è un piatto sui tavoli. “Perché?”. “Suo padre ha detto di no”. Vado su tutte le furie, lo rintraccio e in modo sgarbato gli dico di non intromettersi più. Mimmo si offende. Per due giorni non ci siamo parlati. Nel frattempo fratelli e sorelle mi chiamano per convincermi a chiedergli scusa, una mi ricorda perfino il comandamento “onora il padre e la madre”. Alla fine, per la prima volta in assoluto, abbasso la testa e lo chiamo: «Papà, ti chiedo scusa» eccetera. Capisco che Mimmo è contento, quasi commosso dal gesto. Mi lascia finire e poi con dura tenerezza risponde: «Tu non sei cattivo, Roberto, è quel telefonino che ti ha rimbambito».
L’origine della storia. «Mimmo ha portato la pizza a Bergamo nel ’56, quando Città Alta era un luogo abbandonato. La sua è una delle tante storie di quelli che hanno attraversato l’Italia con un treno per cercare fortuna al Nord. Nel ‘53 si sposa e dopo cinque o sei anni di lavoro a Milano in una pizzeria famosa in via Agnello, conosce Leo Longanesi. È lui a notare l’estrema dinamicità di Mimmo e a dirgli che conosce “un paesino di montagna dove vendono un negozio”: era Bergamo. Mimmo si decide ad aprire un ristorante tutto suo, arriva in Città Alta e chiude l’affare senza dirlo alla moglie. Poi torna a casa a Milano e informa: “Domani ci trasferiamo”.
La moglie stenta a crederci: “Ma sei matto? Adesso che iniziamo a stare bene? Abbiamo le due bambine!”; ma era troppa la voglia di non stare sotto padrone. Così si trasferiscono a Bergamo. Città Alta di allora era piena dei poveri, non era quella di oggi. Una pizzeria sarebbe stata difficile da aprire anche in Città bassa, figurarsi in quella Alta. Era un’avventura, che Mimmo affrontò anche per l’incoscienza dell’età. A Milano avevano raggiunto un certo grado di benessere, la moglie disapprovava la scelta (“Ma dove mi hai portato?”, esclamò dopo aver visto la miseria del posto); ma ormai era stata fatta. Mimmo era così, dice mia madre, faceva le cose spesso senza pensarci».
Lo sbarco in Città Alta. «Un giorno gliel’ho chiesto: “Papà, quando sei arrivato a Bergamo come ti sei sentito?”. Abbassò gli occhi: “Una volta chiuso l’affare mi prese lo scoramento. Fu allora la mamma a darmi forza: mi disse che era il momento di rimboccarsi le maniche. Quel ch’è fatto è fatto”. A quell’epoca l’idea era davvero nuova, il ristorante era visto un po’ come il circo. Una persona che oggi ha 70 anni mi ha confidato che a quell’epoca scappavano dal liceo Sarpi per andare a prendere la pizza: Mimmo aveva proprio il talento e la passione di fare la pizza: l’avrebbe fatta comunque, a prescindere dal successo. Era il suo mestiere».
Integrarsi a Bergamo. «Una cosa che mio padre ripete sempre è che deve ringraziare la città perché si è sentito accolto come un ospite gradito e si sente ancora ospite, nonostante abbia sette figli di cui cinque nati a Bergamo. È tutto fuorché un meridionale classico, è molto vivace, dinamico. Ma sono diversi i meridionali che hanno arricchito Bergamo in diversi campi: il dottor Crispino dell’Asl era un ufficiale dell’igiene rigidissimo che in quel periodo teneva controllati i locali. Giovanni Cacciolo e altri a Bergamo hanno fatto la storia. Ci sono poi diverse persone di origini non bergamasche che l’hanno valorizzata, come Enrico Panattoni, che a Colle Aperto fondò La Marianna. Mimmo aveva fatto l’abbonamento a tutta questa gente migrata a Bergamo, in molti casi perché aveva vinto i concorsi pubblici. Nel suo ristorante respiravano un po’ l’aria di famiglia. Una gestione di cuore, ma anche un marketing primordiale».
Passaggio di testimone. «Le cose cominciarono a funzionare, ma negli anni ‘70 mio padre voleva cambiare ancora. Fu mia madre a dire no: “Noi abbiamo i figli”. L’aveva sposata chiedendo la mano a suo padre, ma lei gli disse: “Io non ti conosco”. Mimmo replicò: “Adesso ci sposiamo, poi ci fidanziamo”. Sono ancora insieme, uno per l’altra. Il desiderio di mio padre era che i figli studiassero e hanno studiato tutti, laureandosi in campi diversi. La scalata sociale per lui è questa, vedere i figli che vanno oltre il suo mestiere. Tutti meno il sottoscritto. Arrivo a 20 anni, avevo fatto il militare e sto ballando tra superiori e università. Un giorno decido, vado da mio padre e gli dico: “Lanciamoci: provo io a portare avanti l’attività”. Mimmo non mi ha mai detto niente in modo diretto, le cose bisognava rubargliele. Ma personalmente ho sempre pensato che per proseguire nel campo aperto da lui non dovessi seguirlo in modo pedissequo, bensì introdurre qualche elemento di rottura, anche perché cambiano i tempi. Così ho fatto. E da quel giorno abbiamo iniziato a litigare su tutto. Da parte mia, a volte, anche per il gusto di farlo. In supporto e per fortuna - lo ripeto - è venuto mio fratello Massimo, ma anche mia madre ha cucito spesso i rapporti fra noi, dopo discussioni feroci sul modo di pensare all’azienda. Io sono quello che ha continuato l’attività, ma non c’è una volta in cui mio padre mi abbia detto bravo. Ogni volta però mi commuove con i suoi gesti: quando fa il pane, quando tocca il forno, sente l’aria. Io forse sono stato bravo a organizzare un ristorante, ma non ho la sua stessa passione, il suo rapporto fisico con il forno».
[I figli Roberto e Massimo]
I lacci che li legano. «Spesso in disaccordo sul lavoro, siamo legati da tante altre cose. Entrambi guardiamo sempre avanti in modo propositivo, siamo appassionati di calcio, di Rivera e del Milan. E poi amiamo i film di Totò: per me mio padre è a metà tra Modugno e Totò: fa le battute alla Totò e canta come Modugno. I film li abbiamo sempre visti insieme. Lui ha giocato molto con noi figli. Ma l’aspetto più bello è che ha sempre visto le cose positive e luminose, anche nei momenti bui. In questo per me è una specie di Charlot: magari deriso, ma che prosegue imperterrito e arriva dove vuole. L’aspetto più divertente è che non soffre di timori reverenziali. Una volta al ristorante c’era Marcello Veneziani, lo scrittore. Anche Mimmo si diletta a scrivere e quando si presentano intellettuali noti al grande pubblico non si fa problemi a dargli un suo libretto stampato autonomamente. È senza vergogna, come tanti della sua generazione che hanno camminato a piedi nudi».
Mai voltarsi indietro. «Un altro sintomo del suo non guardare al passato è la volontà di non festeggiare i compleanni; anzi: se glielo ricordi ti manda a quel paese. Una volta l’avvocato Bruni (Eugenio, il padre dell’ex sindaco) venne al ristorante: mi chiese quanti anni avesse Mimmo, poi andò da lui direttamente e mio padre si fece lo sconto di 7/8 anni. Allora Bruni rispose: «Ah, come me!». In realtà anch’egli era maggiore di alcuni anni. Entrambi non volevano dire l’età perché significava ammettere di avvicinarsi alla pensione. Quando il medico qualche anno fa ha detto a mio padre che deve camminare, Mimmo gli ha risposto: “Lo farei anche, ma incontro troppa gente e perdo tempo; io devo lavorare!”».
Tra passato e futuro. «Io ho sempre fatto la corsa all’indietro per recuperare le mie radici, mio padre invece guarda sempre verso il futuro. Anche nel cibo. Mi arrabbio perché mangia il Philadelphia o perché non mangia più il pecorino con le fave. Ma Mimmo sostiene che questa è roba vecchia. Per lui ogni progresso è bello. In questo senso non è stato un padre classico, ma una guida. Ed è talmente un personaggio pubblico che a volte qualche anziano entra e dice: “Ma ‘l gh’è amò ol Mimmo?” (è ancora vivo il Mimmo?). E lui è lì. È diventato un personaggio della città.
Un giorno stavo tagliando l’erba a casa mia, si avvicina un uomo sul trattore, mi guarda e dice: “Ma te set mia ‘l Mimmo te?”. “Sono il figlio, uno dei figli”, rispondo. Lui si ferma, spegne il trattore e mi racconta che nel ‘68 ha fatto “Da Mimmo” la sua promessa di matrimonio. Il ristorante è entrato così nella vita delle persone. Io ho preso spunto da questo episodio per farne il nostro slogan: «Da Mimmo, la tua prima pizza», rivolgendosi sia alle generazioni del passato sia a quelle attuali e future.
Conclusione. «Mio padre mi ha raccontato un episodio di quando era Milano durante la guerra. Non c’era il pane e per averlo serviva la tessera. Mimmo allora faceva 20 km a piedi e andava a prenderlo chissà dove, anche per il fratello e la cognata. Era riuscito a convincere la fornarina a dargli anche un po’ di pane secco, perché sulla via del ritorno potesse sgranocchiarlo. Uscendo dal forno incontra un cane che aveva la bava alla bocca; lo guarda e gli dice: “Col cavolo che ti do il pane”. Andò avanti pochi metri e poi tornò indietro e diede alla povera bestia tutto il suo pane secco. Mio padre è così: a nessuno farebbe mancare il pane. È il suo modo di voler bene».