Dedicato al grande regista

«Una vita a inseguire un Leone che di nome faceva Sergio»

«Una vita a inseguire un Leone che di nome faceva Sergio»
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«Da ragazzo detestavo i film dei cow boy e dei pellerossa, erano una noia mortale. Un giorno il mio amico Marco mi dice: “Ci sono due compagne di classe simpatiche che verrebbero al cinema, danno un western”. All’inizio rifiutai, ma poi mi sacrificai alla causa. Fu una folgorazione fin dai titoli di testa, con quel fischio che ti entrava nell’anima. Alla fine loro uscirono, ma io rimasi inchiodato alla poltrona: “Ragazzi, voglio rivederlo”. Quel film era Per un pugno di dollari». Fabio Santini, giornalista e musicologo, ha dedicato due terzi della sua vita al grande regista Sergio Leone. Oltre a lavorare nelle più prestigiose radio private, Rtl su tutte, e a RadioRai, è autore e voce narrante di teatro. Da oltre vent’anni porta in giro lo spettacolo C’era una volta il cinema - Viaggio dietro le quinte dei film di Sergio Leone. Al grande regista ora ha dedicato anche un libro edito da Mursia: Sergio Leone, perché la vita è cinema, che è stato presentato sabato 20 aprile alla Fiera dei Librai.

 

Fabio Santini

 

Lei non si è più alzato da quella poltrona...

«È proprio così. Da quel giorno, avevo 13 anni e qualche mese, ho continuato a seguire Sergio Leone».

Fino in America.

«Quando il direttore di Tv Sorrisi e Canzoni Gigi Vesigna mi chiese di andare a New York feci salti di gioia. Avevo saputo che Leone stava girando là gli esterni di C’era una volta in America. Un redattore di Rolling Stone, pazzo di Leone come tutti gli americani, mi mise in contatto con la produzione. Così potei frequentare gli esterni del set e le location: Brooklyn, il Manhattan bridge - una scena che in realtà è stata girata a Montreal -, il cimitero ebraico. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Ho visto girare delle prove e mentre vivevo questa situazione mi sono detto: non è che finisce qua».

E come è andata avanti?

«Grazie a un collega ho potuto incontrare James Coburne, Rob Steiener, Charles Bronson e a Londra ho parlato con Jason Roberts: praticamente tutto il cast di Giù la testa e di C’era una volta il West».

Ha incontrato anche Clint Eastwood?

«La prima volta in California, ma fu molto formale. Eastwood deve la carriera a Leone, così come James Colon, anche se non andava d’accordo con lui. Io registravo tutto sulle cassette e nella memoria. Tornato mi ero segnato una lista di nomi da incontrare. C’erano Morricone, Aldo Giuffrè, Eli Wolloch, Mario Brega. Da loro mi sono fatto raccontare tutto e quei pomeriggi sono stati uno spasso. Così mi sono ritrovato con un plico di materiale. Il 30 aprile 1989 Sergio Leone morì. Io non volevo scrivere un libro perché di testi sul regista, in America e in Europa, ce n’erano già tanti e molto colti. Allora mi sono detto: scrivo un copione, trovo una produzione, lo affido a un attore e ne faccio uno spettacolo teatrale».

Ed eccoci al debutto in teatro del suo C’era una volta il cinema.

«Fu il Teatro Sala Fontana di Milano a dar vita a questo spettacolo. Per una settimana lo portai in scena e da quel momento partì una specie di grancassa: dopo Milano vennero Genova, Domodossola, Parma, Bologna... Considerando anche le scuole, ho fatto 405 repliche in tutta Italia. Per le prove utilizzai il cinema teatro di Suisio, il prete mi aveva consegnato le chiavi».

Per lei è stato un nuovo inizio.

«Esatto. E arrivò il giorno in cui entrai in casa Leone a Roma, zona Eur. Una casa meravigliosa, piena di oggetti dei film. Conobbi la moglie Carla e i figli Raffaella, Francesca e Andrea. Raccontai loro del mio spettacolo e chiesi le immagini dei film specificando che “però non ho una lira”. Loro acconsentirono volentieri. Il rapporto di amicizia si intensificò con la moglie di Leone, Carla, che la prima volta venne a vedere lo spettacolo in Bergamasca, a Cividate al Piano».

Ma lei Sergio Leone l’ha mai incontrato?

«In tutta questa storia è la persona con cui ho avuto meno rapporti diretti. L’avevo visto a Roma, ci siamo scambiati una serie di telefonate, ma niente di più. Il 3 gennaio 1988, giorno del suo compleanno - lui era già malato - ero in onda a Radio Rai e gli organizzammo una festa parlando dei suoi film. Quando intervenne per telefono era commosso. L’ultima volta lo vidi in Sicilia. Con lui comunque non ho mai approfondito i suoi lavori e il suo rapporto con gli attori. Quello, volutamente, ho preferito sentirlo dagli altri. Volevo farmi un’idea di come si viveva con un uomo difficile ma geniale».

Che idea si è fatto di lui?

«Le rispondo con una frase della figlia Raffaella: “Era un uomo con dei chiaroscuri spaventosi: poteva sembrare tirchio, ed era di grandissima generosità; burbero, ed era dolcissimo; irascibile, ed era un mediatore”. Incarnava i valori di chi da ragazzo aveva sofferto la fame. Aveva le sue certezze e quando gli frullava in testa un’idea non c’era verso di fargliela cambiare».

 

Sergio Leone

 

Ci dica qualcosa del rapporto di Leone con Morricone.

«Altro genio pazzesco. Erano stati compagni di scuola e fra loro funzionava così: Leone lo convocava e gli raccontava il film, Morricone tornava a casa e componeva al pianoforte. Poi metteva su un nastro la colonna sonora e la consegnava a Sergio, che la portava sul set e la faceva andare sotto la scena. In C’era una volta il West c’è la scena di Claudia Cardinale che arriva alla stazione. La camera la segue dal treno in orizzontale. Quando l’attrice si reca in biglietteria per chiedere al capostazione un calesse, il tema di Morricone ha un crescendo. Leone seguì quella musica, salì con le riprese e quando la melodia esplode si vede dall’alto una foto di vita quotidiana di un villaggio del West. Quella scena, mi ha detto Spielberg, è la più grande che sia mai stata girata nella storia del cinema».

Spielberg è un fanatico di Leone.

«Come tutti i grandi: De Palma, Tarantino, Scorsese. Che Leone fosse inarrivabile, però, lo si era già capito dalla scena delle corsa delle quadriglie in Ben Hur. Quando venni a sapere che era stato lui a girarla, mi diedi da fare per incontrare Chartlon Heston. Lui mi raccontò di questo giovanotto che non conosceva una parola di inglese e aveva stabilito che la scena si sarebbe dovuta girare in 15 giorni. Ci misero tre mesi perché Leone era maniacale nella cura dei dettagli. “Per fortuna - aggiunse Heston -, per me e per Stephen Boyd, che interpretava Messala, a Roma c’era la dolce vita”».

L’altra faccia di Leone era sua moglie Carla.

«Lei è stata l’occulta regista dei suoi film, era la sua anima. La loro storia d’amore è stata ed è ancora bellissima. Dopo la morte di Sergio, Carla ha vissuto nel ricordo del marito e ha gioito nel vedere che era rappresentato a teatro e che la gente stava iniziando a capire il suo genio. Gli americani, come sempre, lo avevano capito subito. Le faccio anche una confidenza...».

Prego.

«Il grande amore di Carla per Sergio è stato per me e mia moglie una lezione indimenticabile. Ci ha insegnato che la vita è quando due persone si incontrano e la affrontano insieme, superando difficoltà, asperità, difetti reciproci. E vedere che quell’amore non finisce con la morte è stato uno spettacolo. Carla un giorno ci ha detto di amarlo adesso anche più di prima».

E Sergio cosa le ha insegnato?

«Ha riscritto i miei standard della bellezza, mi ha avvicinato al cinema, fatto conoscere le emozioni e una serie di valori».

Quali?

«Essere decisi, cogliere i chiaroscuri, aver cura dei dettagli. Io come lui, ma in fondo come tutti, sono un po’ bambino e il bambino che siamo non bisogna cambiarlo, bisogna coltivarlo».

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