Forza Italia, il ritorno in campo dell'ex segretario provinciale Marco Pagnoncelli
«Gallone ha buona volontà, ma non basta dire: "Resistiamo, tanto Berlusconi ci salva". Bisognerebbe allargare anche a quelli che ti stanno un po' antipatici, anziché restringere»
di Wainer Preda
Marco Pagnoncelli ha 67 anni. È un politico di razza, come pochi in Bergamasca. Poco incline allo slogan, molto al ragionamento, misura le parole, ma arriva sempre al punto. Mastica politica da quando ha i calzoncini corti. Si è formato negli Anni Settanta. Anni difficili. È stato segretario provinciale della Forza Italia al 30 per cento, assessore regionale e poi senatore. Ma a distanza di tanto tempo, la passione per la politica non gli è ancora passata.
Senatore, è stato al convegno di Forza Italia in Val Seriana?
«Sì, certo».
E che clima ha trovato?
«È stato bello ritrovare gli amici di Forza Italia, dopo tanto tempo. Finalmente siamo fuori dalla pandemia e c’è voglia di rilanciare il partito».
Partiamo da chi c’era. Sindaci bergamaschi?
«Ne ho visto qualcuno. Molti di più quelli venuti da fuori provincia, a portare il loro contributo».
Come si spiega questa penuria di bergamaschi?
«Sindaci e amministratori vogliono risposte di ordine pratico, amministrativo ma anche politico. Se le risposte rimangono sempre vaghe, è evidente che vanno dove queste risposte le trovano. Nella Lega, in Fdi o nel Pd».
Lo stesso vale per l’elettorato?
«Temo di sì. Forse abbiamo dimenticato le classi che votavano per noi: il ceto medio, l’artigiano, quello che è oppresso dal fisco e dalla burocrazia. Se hanno cambiato, qualcosa è successo. Non siamo stati vigili e attenti. Gli elettori ti votano se trasmetti la sensazione che ti stai curando delle questioni che li riguardano. Altrimenti la soluzione la cercano altrove. Dobbiamo fare un po’ di autocritica e dar loro risposte».
Ma siete ancora in tempo?
«Abbiamo fatto quel che si poteva, in un momento difficile per il Paese. Le crisi economico finanziarie mondiali non hanno certo consentito di crescere. Ma certamente un partito, quando è sulla breccia da 25 anni, ha bisogno di essere rinnovato e ristrutturato».
C’è un problema di classe dirigente in Forza Italia?
«Il problema vero è come creiamo la classe dirigente. Non possiamo farlo a tavolino. La classe dirigente deve essere credibile di fronte al popolo, non alla nomenclatura. Deve essere riconosciuta e legittimata dai suoi militanti, dai suoi amministratori. La base e gli elettori si sono progressivamente allontanati perché hanno trovato in altri l’entusiasmo, la forza, la voglia, la vicinanza al territorio. Hanno visto in altri partiti la soluzione ai loro problemi».
Quanto hanno pesato le guerre interne agli azzurri?
«Dentro Forza Italia ci sono alcune persone che hanno cultura politica e passione. Lo senti da come parlano. Altri invece hanno toni da comunicato stampa e slogan ripetuti all’infinito, che fanno venire meno la passione. Quel che manca è credere ancora in qualche ideale. Quando si parla di economia non vuol dire solo industria, ma anche lavoro, persone, famiglie».
Facciamo un passo indietro. Lei è il segretario provinciale del 30 per cento. Forza Italia converge nel Pdl e cominciate a perdere terreno.
«Ho lasciato un partito con diciannovemila tesserati, portando al congresso settemila persone. Settemila che credevano in qualcosa. Erano un volano per la società, portavano consenso. Tutto di colpo ci siamo ritrovati un partito che forse non ha più nemmeno i voti degli amici che una volta partecipavano alla nostra vita politica. Resta il consenso di Berlusconi, che per fortuna è ancora dignitoso. Ma non si può sempre contare su di lui».
Consenso di vertice, ma non dalla base...
«È il consenso un po’ nostalgico di chi ha militato per tanti anni nel partito e non se la sente di abbandonarlo».
Torniamo alla storia. Dopo Saffioti, arriva Capelli...
«È stato un periodo difficile e di transizione in Lombardia, con le dimissioni di Formigoni. Ha scombussolato anche noi. La figura del segretario del partito, nella mia concezione, è più vicina al parroco di campagna che deve sentire tutte le esigenze, cercando di fare sintesi, scontentando il meno possibile. Lì era già cambiata, era più di vertice».
Quel che restava poi è finito ad Alessandro Sorte e Paolo Franco...
«Era la destinazione naturale, nel senso che il partito va in mano a chi c’è in quel momento. Franco e Sorte ovviamente hanno conquistato e gestito il patrimonio di consensi che il partito ha lasciato loro, a suo tempo».
Oggi siete al 6 per cento...
«Quando io sono stato segretario provinciale, Forza Italia era un grande partito. Parlava di libertà, economia, libera impresa: tutto cose che erano il fondamento di un credo. Sono venute meno. Sostituite da slogan. Ci siamo impoveriti, anche di ricchezza umana. Non trasmettiamo più passione. Berlusconi nel ’94 disse cose non scontate che gli italiani sentivano loro. Forse, col tempo, la passione è venuta meno anche per lui. Ma bisogna che la classe dirigente locale la sappia davvero trasmettere».
Un giudizio sull’operato del commissario Gallone?
«Ci mette molta buona volontà. Ma il partito ormai è difficile da ricostruire. Difficile ritrovare una base forte. Bisognerebbe allargare, anziché restringere. Allargare anche a quelli che ti stanno un po’ antipatici. Un partito deve saper accogliere tutti. Dopo essere passati dal 30 al 6 per cento non puoi continuare a dire “resistiamo, tanto Berlusconi ci salva”. Anche la classe dirigente deve dare».
Ma finito Berlusconi?
«Non so se ci sarò quando finirà Berlusconi (ride, ndr). Forza Italia, nella sua struttura storica, è nata da Berlusconi e durerà finché il leader non compirà 150 anni. Ma potrebbe anche non succedere a Berlusconi. Tant’è che lui, intelligentemente, ha lanciato il partito unico del centrodestra».
Cosa ne pensa?
«È un modo per rafforzare l’area di centro. E soprattutto per dire ai suoi dirigenti “guardate che la prossima volta dovete conquistarvi il consenso”, come fa la Lega sul territorio».