Attenti ai prof anti-Invalsi: negano il futuro ai loro allievi

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Ogni mobilitazione ha il suo slogan. Quello di Boycott Invalsi è stato «Non siamo numeri e crocette». Cosa dice questo slogan? Che la scuola italiana è ormai - complessivamente - un caso perso. Dead Institution Walking.

Vediamo meglio. Chi ha scritto questa robaccia deve necessariamente essere all’oscuro del fatto che i test in oggetto non hanno affatto lo scopo di valutare le abilità dei singoli testati. Essi si prefiggono esclusivamente di definire la condizione in cui si trova l’istituzione scolastica nel suo complesso rispetto a certi parametri, al fine di poter programmare interventi idonei al recupero delle situazioni disagiate e/o all’affinamento delle eccellenze.
Nessuno - ci permettiamo di immaginare - si oppone al fatto che il ministero accerti il numero (il numero) degli edifici scolastici del nostro Paese. Qualcuno si sentirebbe colpito nell’onore se il ministro volesse conoscere il numero medio di studenti per classe? Vogliamo sperare che nessuno penserebbe che lo Stato intenda con queste indagini “ridurre ad un numero” le scuole e le classi.
Bene: i test INVALSI fanno  misurazioni solo lievemente più sofisticate delle precedenti - ad esempio: quanti sono gli studenti italiani di una certa classe d’età in grado di risolvere un problema matematico tipo: “Quale procedimento useresti per moltiplicare a memoria per 998 un numero di due cifre? - descrivilo con una formula”. O di riconoscere come vera o falsa una certa affermazione tipo: “La prima bomba atomica utilizzata in un conflitto fu sganciata su Hiroshima due giorni prima che Hitler si suicidasse nel bunker di Berlino. V/F ?.
Le prove tendono semplicemente a tracciare il profilo delle diverse situazioni territoriali rispetto a domande come quelle appena riportate. In alcune zone saranno in tanti a dare le risposta esatte, in altre meno. Rifiutarsi di somministrare i test (docenti) o di sottoporvisi (studenti) equivale al rifiuto che un segretario opponesse al provveditore che gli chiede quanti iscritti abbia la sua scuola. È dunque assai grave che i docenti e gli studenti che hanno inscenato la protesta abbiano mostrato di non conoscere un aspetto così elementare della vicenda, un aspetto detto e ripetuto fino alla noia dal ministero e dalle sue ramificazioni. È come se si fossero rifiutati, i primi e secondi, di partecipare alle esercitazioni antincendio della scuola sostenendo che sono soltanto un modo per poter accusare qualcuno di essere un piromane. Un assurdo.
Ma siccome niente è a caso, la protesta cela probabilmente una sorta di senso di colpa anticipato rispetto ai possibili risultati: scuole, prof e studenti messi male sanno benissimo in che condizione si trovano e non desiderano veder confermata la loro previsione da un esame per quanto possibile obiettivo della situazione. Chi pensa di poter battere un record spera che i cronometristi o gli addetti all’asticella facciano bene il loro dovere, al contrario di chi va in giro dicendo di esser veloce come il vento o di saltare come un gatto senza aver però mai affrontato una gara. I 9.58 secondi ottenuti a Berlino sui 100 metri non hanno ridotto a numero Usain Bolt: lo hanno proiettato nella storia. Non c’è partita di basket che non sciorini una impressionante serie di dati relativa ai singoli come alle loro squadre. Di un’auto che corra un Gran Premio sappiamo tutto decimo di secondo dopo decimo di secondo. E nessuno ha di che lamentarsi. Anzi: sapere che in Giamaica o in Kenya sono più numerosi che da noi i ragazzi in grado di ottenere prestazioni maiuscole può aiutare le nostre federazioni a domandare più impianti sportivi e migliori allenatori.

Ma, se permettete, c’è qualcosa di ancor più grave, di ancor più radicalmente preoccupante in quello slogan, ed è il rifiuto - o l’incapacità becera - di riconoscere che oggi non esiste più nulla - salvo l’intensità dell’amore - che non sia numerabile. Usare internet implica di fatto il ricorso a un indirizzo IP. Scattare una foto col telefonino significa ridurre ad un insieme di numeri un dato di realtà. Ritirare dei soldi al bancomat, pagare l’autostrada col telepass, passare allo scanner i codici a barre, tutto implica un riferimento numerico. Che non coincide con la cosa, ma è ciò che la trasforma in informazione utile.
Quando un cantante o una band hanno successo, immediatamente vien detto quanti dischi hanno venduto o quanti follower hanno sui social network. Quanti erano i fans a San Siro o al Campovolo. Nessuno che possa vantare milioni di contatti si sente ridotto a numero dalla cifra che compare sotto il suo video su youtube. Lo stesso accade per le vendite dei libri e per le analisi dei testi.
La protesta anti INVALSI denuncia quindi un ritardo culturale che, oltre ad essere evidentemente pretestuoso (è impossibile che nessuno abbia mai riflettuto su quanto appena ricordato), dovrebbe spingere il ministero e le autorità scolastiche a cascata a sanzionare in maniera grave i docenti che vi abbiano aderito: dichiarare nei fatti di non capire che siamo entrati da tempo nell’era digitale (da digit, cifra numerica) dovrebbe essere ritenuta una inadeguatezza all’insegnamento più grave di qualsiasi altra, salvo la tendenza alla pedofilia.
Mostrare nei comportamenti - oggettivamente, come si diceva nel '68 - di non avere inteso in cosa consista il passaggio dall’analogico al digitale significa dichiarare ipso facto di non poter svolgere (o riconoscere) i termini propri di una analisi del reale compiuta con strumenti concettuali adatti al nostro tempo. Di non essere contemporanei. Di voler continuare ad usare un calendario del secolo scorso solo perché lo si è trovato vergine.
Usiamo una metafora? Non capire che differenza ci sia fra un approccio alla realtà analogico e uno digitale equivale a preoccuparsi che un CD contenente delle foto non prenda luce, come si faceva un tempo coi rullini della Kodak. Se la scuola deve rinnovarsi ed essere in sincrono con la storia che passa (dum loquimur - dice il poeta - fugerit invida aetas: Mentre stiamo parlando il futuro sarà già scappato via nel passato) è da questioni come queste che dovrebbe prendere slancio. La recente protesta dice dunque che ce ne sarebbe tragicamente bisogno - anche per i modi con cui le autorità centrali hanno cercato di rispondervi - ma che niente lascia prevedere che le cose possano cambiare from here to eternity, per usare il titolo di un celebre film con Burt Lancaster, Monty Clift e Deborah Kerr.
Siamo sempre sulla soglia di un futuro che non sarà mai accaduto. D’accordo i precari. Ma c’è dell’altro, diamine, nel futuro delle giovani generazioni. Che andando avanti così non resterebbero soltanto prive della pensione per non aver trovato un lavoro. Diventerebbero vecchie senza aver mai preso contatto effettivo col proprio tempo, per aver incontrato professori e istituzioni incapaci di capire perfino la differenza concettuale tra un disco in vinile e un iPod, tra una lettera col francobollo e una e-mail. E personaggi di questo tipo vorrebbero preparare al lavoro i loro allievi?

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