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All’Imiberg la ricerca scientifica diventa protagonista. Grazie ai ragazzi

Gruppi di studenti del Liceo si dedicano con passione a esperimenti e analisi. Ce ne parla il professore Tassetti, che insegna Fisica. È così che si valorizzano i talenti e si alza il livello di tutti

All’Imiberg la ricerca scientifica diventa protagonista. Grazie ai ragazzi
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Abbiamo intervisto il prof. Dario Tassetti, docente di Fisica, che ci ha raccontato il percorso che l’Imiberg ha intrapreso da un paio di anni a questa parte per valorizzare le competenze scientifiche dei propri alunni.

Il professore di Fisica Dario Tassetti

Buongiorno prof. Tassetti, abbiamo scoperto che nella vostra scuola ci sono studenti che liberamente si dedicano alla ricerca scientifica fuori dall’orario scolastico. È vero?

«Tutto vero».

E cosa fanno?

«Trasmettono un entusiasmo contagioso! Sono al lavoro da settimane per preparare degli elaborati da presentare al concorso scolastico di Scienza Firenze che si terrà ad aprile. Abbiamo tre gruppi di ragazzi che stanno lavorando su temi diversi: uno in ambito chimico (con il prof. Corrado Brissoni), uno a cavallo tra chimica e fisica (con la prof.ssa Marina Barbieri) e uno in ambito fisico (che coordino io). I tre gruppi stanno raccogliendo numerosi dati sperimentali a sostegno delle tesi che vogliono dimostrare e che saranno esposti e rielaborati nella tesina che verrà valutata dalla giuria del concorso. Non posso dirle di più sui contenuti dei lavori perché, da regolamento, i lavori in concorso devono essere presentati in forma anonima per permettere alla giuria di valutarli più liberamente».

Cosa la entusiasma così tanto?

«Vedere gli occhi dei ragazzi che si illuminano quando scoprono qualcosa di nuovo. È entusiasmante osservare un ragazzo che si appassiona perché ha capito come un certo concetto, teorico o tecnico, lo aiuta nel portare avanti l’esperienza in laboratorio. In questi gruppi di lavoro si osservano ragazzi che hanno voglia di imparare, che si appassionano a quello che stanno facendo mettendoci fisicamente le mani; cosa ben diversa dallo stare seduti in classe».

Come è nata questa esperienza?

«Dalla necessità di premiare l’eccellenza. È emersa tra noi docenti la necessità di valorizzare i talenti che i nostri alunni hanno, approfittandone per sviluppare ulteriori competenze. Questo è uno dei modi con cui premiare la passione e l’impegno che alcuni ragazzi mettono nello studio delle nostre discipline. Da questo punto di vista, è molto interessante notare che i ragazzi coinvolti non sono semplicemente alunni che hanno i voti migliori, ma sono coloro che hanno dimostrato un impegno, un atteggiamento, interessato e propositivo verso la disciplina. Anche nonostante la presenza di alcune difficoltà. Proporre agli studenti con competenze discrete di coinvolgersi a un livello maggiore nelle nostre discipline, suggerendo un lavoro extra molto impegnativo, siamo convinti che sia per loro un momento di crescita didattico, culturale e umano».

Quanti alunni sono coinvolti?

«Nel mio gruppo cinque, due di terza e tre di quarta tutti del liceo delle Scienze applicate. Gli altri due gruppi sono formati da quattro alunni ciascuno, provenienti da tutti e tre i nostri indirizzi liceali (liceo Scientifico, Scienze applicate e Sportivo, ndr)».

E quanto tempo richiede questo tipo di progetto ai ragazzi?

«È difficile da dire, perché, almeno nel mio gruppo, l’organizzazione è lasciata in parte alla loro stessa responsabilità. Da inizio anno abbiamo appuntamento ogni due settimane al sabato mattina per quattro ore di lavoro insieme (all’Imiberg il sabato non si va a scuola, ndr). Poi i ragazzi sviluppano autonomamente il lavoro a casa e vengono in laboratorio almeno due volte, ciascuno secondo i propri compiti, e il sabato successivo facciamo il punto della situazione. In questi mesi il team di lavoro ha prodotto più di ottanta ore di esperimenti, un numero impressionante se si valuta che le ore di Fisica svolte in un anno di liceo sono meno di 110. Poi altre ottanta ore tra programmazione e prototipazione: un ragazzo ha programmato un software per elaborare i dati raccolti, un altro ha programmato un piccolo robot per delle simulazioni… Investono volentieri molto del loro tempo libero».

Quali obiettivi riuscite a raggiungere con questa attività?

«Uno dei principali è quello di iniziare a fare capire come si lavora nell’ambito della ricerca scientifica. Mi spiego: i ragazzi capiscono quasi da subito che per ottenere dei risultati validi bisogna lavorare molto e che bisogna spesso ripetere tante volte la stessa operazione. Nel nostro caso, sono state effettuate non meno di 500 misurazioni, significa che hanno ripetuto cinquecento volte la stessa operazione. Può diventare noioso, ma capiscono il valore della pazienza e del sacrificio. In secondo luogo, imparano a lavorare in gruppo e comprendono che per ottenere risultati è necessario dividersi i compiti e coordinarsi in maniera razionale. Questo è fondamentale: nessuno scienziato può lavorare da solo. Con questo tipo di attività, infine, riusciamo a stimolarli, il meccanismo della competizione è formidabile, spinge a lavorare sempre meglio e di più».

Ci spieghi meglio…

«Uno dei momenti più significativi è quello che si verifica in questo periodo. I dati sono stati raccolti e devono essere rielaborati per essere inviati agli organizzatori del concorso entro la scadenza, ma i ragazzi non ne sono soddisfatti e vorrebbero continuare a lavorare per poter sottomettere a giudizio un lavoro migliore. Si trasformano, percepiscono il lavoro fatto come non sufficiente. Ma non sarà mai possibile raggiungere la perfezione, gli strumenti di misurazione non lo sono, a maggior ragione quelli a disposizione nei laboratori di un liceo. Quando arrivano alla consapevolezza che per migliorare bisognerebbe cambiare alcune delle strumentazioni impiegate, significa che hanno raggiunto la piena consapevolezza di ciò che hanno fatto e che stanno facendo, accettando i limiti del proprio lavoro».

Queste attività hanno ricadute in classe?

«Sì, diverse. In primo luogo, l’argomento affrontato diventa oggetto di approfondimento per tutta la classe. I ragazzi coinvolti esporranno il loro lavoro a tutti i compagni in una lezione aperta. Inoltre, chi partecipa al progetto vive la classe con un quid in più, gli argomenti che trattiamo per loro sono più interessanti perché utili nel portare avanti il progetto di ricerca. Gli serve per essere usato, non è solo qualcosa da sapere per la prossima verifica».

Sugli altri studenti che ricadute ci sono?

«Nel nostro metodo di lavoro creiamo periodicamente dei gruppi di recupero dove affianchiamo uno studente che ha capito meglio l’argomento a uno che sta facendo più fatica, perché emergano e si risolvano i dubbi fra pari così da poter raggiungere un livello di consapevolezza superiore. Con gli studenti che partecipano al progetto questo è più facile e potenziato, perché possono condividere le tante competenze acquisite, sia in laboratorio che a livello teorico, con i compagni che hanno delle lacune. Questo lavoro extra svolto da alcuni aiuta ad aumentare notevolmente il livello di conoscenza di tutta la classe».

Perché un professore decide di affrontare un progetto del genere?

«I benefici sulla classe basterebbero da soli. Ma la realtà è che a noi professori piace rivivere con loro la magia della scoperta, osservare il loro sguardo che si illumina per quello che stiamo spiegando. Sapere che le cose di questo mondo stanno passando dalle nostre alle loro mani e le stiamo misurando insieme».

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