Dove sta scritto che se piove non si corre?
Il vero runner non deve cedere alla tentazione dell’alibi dei mm di pioggia previsti dall’ennesima app o da nuvoloni che lo "giustificano"

Di Marco Oldrati
Montano le polemiche, questa volta non contro il governo o la Juventus, ma contro il tempo, contro il meteo. Mai possibile che per tutto il lockdown non sia caduta una goccia di pioggia e adesso non passi sera senza tuoni e fulmini? Ma il corridore, non solo quello vero ed eroico, ma anche il semplice appassionato non demorde e se lo fa gli consigliamo di non cedere alla tentazione dell’alibi dei mm di pioggia previsti dall’ennesima app o da nuvoloni che lo “giustificano”.
La pioggia come scusa per non andare a correre è proprio come la giustifica con la firma contraffatta dei tempi di scuola, causa dell’assenza “motivi familiari” … un modo per dire che non si ha voglia, quando in realtà – e qui mostro il lato patologico soft del runner – correre sotto l’acqua è un piacere non comune. In qualsiasi stagione? No, non in qualsiasi stagione: d’inverno la temperatura fredda mette a disagio anche il fisico più allenato, ma in quei casi – lo dico per esperienza – l’auspicio è che la pioggia si tramuti in neve. Se non l’avete mai fatto fatelo: correre anche solo una mezz’ora durante una nevicata vi farà provare cose che non vi siete mai immaginati: la percezione dei suoni attutiti, il rumore dei passi così differente dal solito, la strana sensazione di muovervi e non muovervi perché le distanze e la fatica cambiano completamente forma. Ma in primavera, when it drizzles, citando Charlie Parker, quando c’è la pioggerellina londinese, correre è una delizia: non sentirete la sete, non sentirete il calore che vi affatica e vi fiacca, non sentirete troppo l’attrito dell’appoggio del piede a terra. Fate attenzione, però: se avete messo calze troppo sottili o non le avete ben distese prima di mettervi le scarpe, lo scivolare millimetrico dentro la scarpa ad ogni passo vi consumerà la pelle senza che ve ne accorgiate. Scegliete bene le calze e stiratele attentamente sul piede (anzi, fatelo sempre, pioggia o non pioggia: senza fiacche il finale della corsa sarà meno sadomasochista!). L’esperienza più “mistica” è quella del temporale, d’estate: una corsa sotto la pioggia battente è un rito dionisiaco, un inno all’energia della natura che vi dimostra la sua capacità di abbracciarvi senza farvi correre alcun rischio o farvi alcun male. Non dovete saper nuotare per sentire il piacere di una vera e propria immersione nelle forze che vi circondano. Tuoni e fulmini vi daranno la scossa, vi spingeranno a sorridere, non ad accelerare, ma a sentirvi vivi, in sintonia con lo spazio che vi circonda.
Certo, in caso di pioggia l’attenzione a come correte è doverosamente più alta: evitate cambi di direzione improvvisi, se incontrate superfici viscide (asfalto lucente o il legno dei ponti di qualche pista ciclabile) occhio a non fare degli scivoloni anche pericolosi, parlo per esperienza o meglio per fesseria personale, non andate a centrare pozzanghere che magari coprano fango o foglie o aghi di pino, in discesa evitate le falcate del maratoneta keniano e procedete a passi più frequenti. E sappiate che la pioggia finisce appena rientrate a casa e una doccia calda vi aspetta (non troppo calda, il delta termico è sconsigliato, soprattutto per i piedi – rischio geloni), non vi accompagnerà di là dal portone di casa. Perché tutti coloro che corrono hanno un nido accogliente che li aspetta … o meglio, non tutti!
E qui scatta l’immancabile aneddoto, quello di un amico, Marco, che ci aveva sempre visto correre e ci guardava con un certo scetticismo, ma poi preso da curiosità ci si è messo anche lui. Come è nel suo carattere, riservato e certamente poco esibizionista, non l’aveva detto a nessuno e si era attrezzato opportunamente, a ritmo tranquillo e senza ambizioni eccessive, ma con la regolarità di uno che fa sul serio. Bene, come tutti quelli che fanno sul serio alla fine c’è cascato anche lui e ha sfidato la sorte, dicendosi “Faccio la maratona” e per giunta non una maratona a caso, ma la più coreografica fra le maratone che possiate immaginare: Venezia. La Venicemarathon è un capolavoro: i primi quindici chilometri sulla riviera del Brenta partendo da Villa Pisani sono incantevoli, con bande, complessi rock, majorette, ville palladiane. Poi si attraversa Marghera e la poesia diventa grido di rabbia davanti all’urbanistica industriale e ai luoghi della tragedia Montedison, ma poi il misticismo riprende il sopravvento lungo i quattro chilometri del ponte della Libertà, dalla terraferma a Venezia. Da qui comincia il sogno: prima delle Zattere, poi dopo Punta della Salute direttamente sulla Riva di San Marco, transito in Piazza e via fino ai Giardini della Biennale. Bene, nel caso di Marco il misticismo si è sprecato, perché la sua sfida a Venezia e ai suoi ponti cade nell’anno in cui lo scirocco ha deciso di sfidare i runner e regalare loro l’esperienza della maratona con l’acqua alta … Marco si trova il vento contro per tutta la gara e in particolare sul ponte, oltre alla pioggia, ma il vero combattimento comincia a San Basilio, all’inizio delle Zattere: all’ultimo ristoro duecento metri prima hanno detto di andare piano, ma a dire il vero come si fa ad andare forte quando la falcata atterra su quindici centimetri d’acqua? L’immagine che vedete è eloquente, non c’è alternativa che procedere a piccoli passi in direzione del traguardo. Marco non si tira indietro, c’arriva e forse si mangia un po’ le mani, perché nonostante tutto ci ha messo cinque ore e due minuti, forse quei due minuti … macché, chissenefrega! Quando lo racconta gli occhi sono sbarrati e le parole per descrivere le sensazioni provate mancano, ma sappiatelo, Marco non è un titano di un metro e novanta, il suo non è stato uno scontro violento con la natura, ma solo la prova, l’ennesima per chiunque corra, che le gambe arrivano dove la testa e il cuore le portano.