Nuovo libro con foto di Edward S. Curtis

L'uomo che immortalò gli indiani

L'uomo che immortalò gli indiani
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L’uscita di un nuovo libro con fotografie di Edward S. Curtis ci permette di fare una strana osservazione: Curtis dedicò la sua vita a fissare su lastre la vita degli Indiani americani, e ne ebbe in cambio una serie progressiva di disavventure economico-finanziarie, al punto che morì d’infarto; Christopher Cardozo ha passato la sua a pubblicare libri di Curtis - questo è l’ottavo - e pare non se la passi malissimo.

 

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Peggio non poteva andare per chi ci ha lasciato la più vasta documentazione sui Pellerossa, il popolo i cui effettivi passarono, nel giro di pochi decenni, da oltre un milione di cacciatori con mogli al seguito a quarantamila sedentari per lo più alcoolizzati e chiusi in riserve. Solo i bisonti subirono, sul suolo americano, uno sterminio paragonabile. C’è anche una canzone di De Gregori che lo ricorda: Buffalo Bill. Peggio non poteva andare per Edward Curtis - dicevamo - perché, a fronte delle migliaia di immagini che ci ha lasciato, c’è chi ha voluto togliersi lo sfizio di ritenerle inutilmente romantiche, scarsamente documentarie, troppo strizzanti l’occhio alla nascente industria hollywoodiana. È vero che Curtis lavorò - nei suoi ultimi anni - anche come assistente fotografo per Cecil B. De Mille durante le riprese di I Dieci Comandamenti, ma che vuol dire questo? Le sue foto restano grandi comunque. E chi le acquistò pagandole in ogni caso molto poco, perché l’autore e venditore si trovava sempre più alle strette da un punto di vista economico, oggi dispone di un patrimonio destinato a crescere nel tempo.

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E un’altra cosa torna sempre alla mente, di fronte a una foto di Curtis: che non c’era la fotografia digitale al tempo in cui c’erano ancora gli Indiani. Le immagini venivano registrate su lastre per essere poi stampate a contatto. Portare a termine il procedimento richiedeva una perizia tecnica assoluta e una notevole fatica perché macchine, lastre e cavalletti pesavano notevolmente e le pianure e le colline che dovevano attraversare erano grandi, grandi, non finivano mai. E così, guardando quelle foto nel loro magnifico color seppia, quei volti così incisi, i bambini nelle loro culle e le squaw intente al lavoro, viene in mente anche l’avventura del fotografo, e il suo spostarsi nell’erba alta - la blue grass - e sulle piste sabbiose. Non nella speranza di far fuori montagne di buffalos, non per assalire villaggi e calpestarne i fuochi sotto gli zoccoli tenendo la spada sguainata, ma per lasciarci la memoria di un popolo: inconsapevoli - popolo e fotografo - che di lì a poco non ci sarebbe più stato niente per l’uno da vivere, per l’altro da fotografare.

 

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