Ops, David Byrne l’ha fatto ancora Ha rivoluzionato l’idea di concerto

Ops, David Byrne l’ha fatto ancora. Ha riscritto le regole del concerto rock. Lunedì 16 luglio è passato dal Teatro degli Arcimboldi di Milano (poi il 19 a Ravenna, il 20 a Perugia e il 21 a Trieste) il suo tour-capolavoro: melting pot di arte varia, show teatrale con una coreografia curatissima – l’ha firmata Annie-B Parson, anima del Big Dance Theater di New York – e mezzi tecnologici raffinati ma invisibili. Palcoscenico vestito solo di tre pareti di catene metalliche che riflettono le luci, 12 musicisti scalzi (o con scarpette color carne, impercettibili, in due casi) dentro completi grigi di Kenzo, passi di danza grotteschi e scenografici.








Mentre altrove ci si affanna ad affastellare droni volanti ed effetti speciali ultravivaci, qui si lavora per sottrazione: grazie a imbracature e segnali wireless i musicisti hanno gli strumenti a tracolla, tastierista e percussionisti compresi, e vengono seguiti passo passo dalle luci grazie a un sistema di tracciamento automatico a infrarossi. Niente amplificatori sul palco, niente fili degli strumenti, niente schermi. Il concerto inizia con il cantante che illustra le regioni del cervello che sovrintendono alle emozioni – Here, brano che chiude l’ultimo album American Utopia - e finisce con Hell you talmbout, elenco delle vittime della violenza razziale negli Stati Uniti messo assieme da Janelle Monáe. In mezzo tanti classici dei Talking Heads, da Once in a lifetime alla This must be the place che ha stregato Sorrentino. Niente Psycho killer.
Quasi tutti suonano e nessuno sta fermo, si generano geometrie e suggestioni. Basta un proiettore piazzato sul palco e le ombre dei protagonisti diventano un grande schermo. Geniale, come tutte le cose (apparentemente) semplici. E tutto è suonato dal vivo: lo dice chiaro e tondo, Byrne. Bisogna vederlo, una volta nella vita.