Perché è giusto che Fuocoammare abbia vinto l’Orso d’Oro a Berlino
Il 20 febbraio, il documentario Fuocoammare di Gianfranco Rosi è stato premiato con l’Orso d’Oro al festival internazionale del cinema di Berlino. Un riconoscimento a un’opera delicata, che va a toccare il tema dell’immigrazione «senza violenza, con pudore e rispetto», come ha scritto su Internazionale il critico Goffredo Fofi. Per realizzare quest’opera, Rosi ha vissuto più di un anno a Lampedusa, l’isola diventata simbolo del fenomeno migratorio che, oramai da anni, interessa il nostro Paese e tutta Europa. Un’umanità ai margini, in tutti i sensi: i lampedusani, umanità ai margini dell’Italia e dell’Europa, quasi dimenticati laggiù, nel cuore del Mediterraneo, con il Continente che pare più lontano che mai anche nella vita di tutti i giorni; i migranti, umanità ai margini della vita stessa invece, in fuga da quanto di peggio esiste al mondo, dalle guerre alla fame, dal terrorismo alle malattie. Rosi non è nuovo a questo tipo di indagine cinematografica, visto che già tre anni fa conquistò il Leone d’Oro al Festival di Venezia grazie al documentario Sacro GRA, dove ha raccontato l’umanità ai margini di Roma seguendo le vicende di persone che vivevano in prossimità del Grande Raccordo Anulare (GRA, appunto) capitolino.
Più che informazione, esplorazione. I documentari, da sempre, vengono girati con una troupe leggera, in grado di non limitare eccessivamente i movimenti del team e permettere rapidità di adattamento ai luoghi e agli eventi. In tal senso, Rosi è ancora più radicale poiché ha deciso di girare i suoi documentari in solitaria. Anche in Fuocoammare dietro la telecamera c’è solo lui. Lui, unico testimone di ciò che vede e ci fa vedere, di ciò che accade e riprende. Rosi, con questa metodologia di lavoro, è costretto a entrare in contatto con gli ambienti che vuole raccontare e, così facendo, costringe anche lo spettatore a farlo. Quando Rosi parla con le persone, lo fa anche il telespettatore; quando Rosi osserva qualcosa, lo stesso fa lo spettatore. C’è una totale assenza di filtri. E infatti Rosi non spiega quel che accade; lui stesso ha in passato affermato che i suoi lavori «davvero non sono per amanti dei documentari della Bbc»: non danno informazioni, non spiegano ciò che accade, non ricostruiscono storie. I documentari di questo regista pluripremiato, nato in Eritrea, cresciuto in Italia e formatosi artisticamente alla New York University Film School, sono in realtà delle esplorazioni in cui, per comprendere ciò che accade, non si può fare altro che seguire lo scorrere delle immagini.
Ed è, francamente, un bel vedere: le immagini sono sempre terse e bellissime, il montaggio sapiente. Il documentario è costruito, non affidato a riprese di tipo banalmente giornalistico. Dietro le riprese c’è un grandissimo lavoro di postproduzione e questo non è un punto a sfavore, ma un punto a favore del prodotto finale. Si vede la cura non solo narrativa, ma anche tecnica con cui è stato realizzato Fuocoammare. Perché in un’opera del genere le immagini sono tanto, se non tutto. Sono quelle a parlare e a privare l’opera di ogni qualsivoglia forma di struttura ideologica. Un film che, come scrive l’operatore sociale a Lampedusa Francesco Piobbichi su Il Fatto Quotidiano, «ti porta dentro la semplicità di una comunità di mare, riassunta dalla vita di un bambino lampedusano e di un pescatore di ricci. Guardandolo ho risentito il profumo del sugo di pesce che la domenica si sente per la strada, l’odore dell’asfalto bagnato dopo il temporale autunnale, le storie del mio amico Pippo quando era bambino»; ma che allo stesso tempo non dimentica il dolore umano che dovremmo provare tutti quanti davanti a ogni tragedia del mare che avviene a pochi chilometri dalle coste di Lampedusa. Dolore che, invece, fatichiamo anche solo a comprendere.
Le due storie dentro Fuocoammare. Il film si struttura su due binari: da un lato la storia dei migranti e di tutti gli operatori che ogni giorno li seguono, li aiutano a sopravvivere e li vedono morire; dall’altra quella dei lampedusani, nelle loro case o sulle loro barche. Sebbene così vicini, i momenti di connessione tra questi due “film dentro al film” sono pochissimi: una parola di carità di una nonna che apprende la notizia di una tragedia in mare alla radio e l’accorata testimonianza di Pietro Bartolo, il medico che dirige il poliambulatorio di Lampedusa e che da anni compie la prima visita ad ogni migrante che sbarca nell'isola. Bartolo parla cinque minuti in telecamera, ma già quelli danno un senso a tutto. Fofi scrive: «Cinque minuti che andrebbero mostrati in tutte le scuole e a tutti gli italici deputati, e funzionari, e professionisti e insomma a tutti i nostri ipocriti connazionali. Non ci fosse che questo, Fuocoammare sarebbe già un film memorabile». C’è un’altra scena del film che, però, ha una potenza comunicativa enorme, e fa sempre parte del “sotto-film” legato alla tragedia dei migranti: quella in cui i profughi cantano una canzone che racconta la sofferenza del loro viaggio. È un lamento commovente, che ricorda le canzoni blues intonate nei campi di cotone dagli schiavi di colore di un’America che, fortunatamente, non c’è più.
L’altra Lampedusa che Rosi racconta, invece, è quella della quotidianità fatta di pesca, di odore di mare, di sole battente sulla nuca, di vita di famiglia, di esperienze di un ragazzetto vispo e assettato di avventura. È una Lampedusa allegra, viva, ma ai margini. Ai margini dell’Italia di oggi, ai margini della modernità delle metropoli a cui siamo abituati.
Due mondi così lontani, così vicini. Nel film il contatto tra questi due mondi narrati da Rosi è minimo, come detto. Da una parte prevale la documentazione (i migranti), dall’altra il neorealismo (i lampedusani). In mezzo c’è il mare, fonte di vita per gli abitanti dell’isola, portatore di morte per coloro che sono costretti ad affrontarlo per sperare in qualcosa di meglio. È un contrasto che persiste per tutto il film, con le due storie che paiono scontrarsi più che incontrarsi. C’è chi, in questa netta divisione, ha visto un difetto del film. Forse, però, è un effetto voluto. Come scrive Piobbichi, che è stato al fianco di Rosi nei mesi di riprese di quest’ultimo, in Fuocoammare «molte cose non sono dette, altre devono essere immaginate». Nel raccontare la vita dei lampedusani, Rosi racconta anche lo «scarto di tempo» che c’è tra loro e noi, uno scarto di tempo che «descrive in maniera formidabile la lontananza che Lampedusa vive con il resto dell’Italia. Lontananza fisica, ma anche lontananza dei diritti. […] Lampedusa ha dato tanto, ha visto l’isola diventare militare, confine, palcoscenico, ha dovuto affrontare quello che Paesi e continenti non hanno affrontato. Non ci può essere accoglienza se questa toglie la dignità agli uomini e alle donne, come sta avvenendo in questi mesi a causa dell’avvio dell’Hot Spot. Aver istituzionalizzato l’accoglienza non l’ha resa più umana, anzi, ha tolto a questa comunità la possibilità di esercitarla con il calore umano. […] A Lampedusa oggi serve un ospedale e non un Hot Spot; serve sommare i diritti di tutti senza metterli in competizione. Se un diritto è parziale o solo di alcuni, questo diventa un privilegio».
È per questo che Fuocoammare è un film importante: perché pur raccontando il dolore dei migranti non dimentica di raccontare anche gli altri. Nell’apparente menefreghismo dei lampedusani si nasconde in realtà la pragmatica concretezza di chi s’è rimboccato le maniche e ha salvato vite, senza bisogno di tanti proclami. Di chi, nonostante viva su una briciola dell’Europa, ha fatto più di tutto il Continente messo assieme. Rosi ha deciso di non spiegare tutto questo, ma di mostrarlo e basta. Noi, in silenzio, non dobbiamo fare altro che osservare. E riflettere.