Robert Overby, un artista mai amato dagli artisti
Fino al 27 luglio, la GAMeC, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, ospiterà la mostra dedicata alle opere di Robert Overby, artista statunitense dalla vicenda assai articolata. Robert Overby. Opere 1969 – 1987 è la prima retrospettiva a lui dedicata in una istituzione italiana ed è parte di un’esposizione itinerante che ha già fatto tappa al CAC di Ginevra e, dopo Bergamo, sarà ospitata al Bergen Kunsthall in Norvegia (settembre 2014) e al Consortium di Digione in Francia (gennaio 2015).
La scelta minimalista del titolo è, in realtà, la traccia della complessità del progetto e del personaggio. La sola cosa che si può dire di lui senza incorrere in errori o depistaggi è una tautologia: Robert Overby è Robert Overby.
Non può essere collocato in alcun movimento. Non è mai stato trattato da nessun gallerista. In vita (è morto nel 1993, a 58 anni) ha realizzato soltanto due mostre personali. Non è mai stato amato, per non dire che è stato ostacolato, dagli artisti cosiddetti mainstream, quelli che fanno parte della corrente di moda in un dato momento. In breve: un outsider di ruolo. Se è arrivato prima di altri a certe conclusioni è solo perché ha sempre salvaguardato la propria indipendenza rispetto alle dinamiche del mercato dell’arte degli anni ’70 e ’80. Il progetto in corso intende riconsegnare all’artista ciò che gli è dovuto.
Black Hands, 1977
Concrete Screen Door with Hole, 20 febbraio 1971
Magnetic Stretch, 5 luglio 1970
Pink Head, 1974-1977
Thanks Leo Manso, 1987
Untitled (Monk Restoration). 1973
What Else is Important, 1981
St. Serapion's Collar, 1973
Door with hole, second floor, 4 agosto 1971
Clap, 1975
Untitled (Montage #4), 1976
White Grid, 1977
Robert Overby nasce come graphic designer e in questo campo ottiene subito buoni successi. Suo è il famosissimo logo della Toyota. Dal 1969 si orienta verso le arti visive e inizia una sperimentazione ricchissima sia dal punto di vista dei materiali che delle possibilità espressive. Si dedica alla pittura, alla scultura, alla fotografia, all’installazione e al collage. La sua cospicua produzione è concentrata soprattutto nell’arco del ventennio in cui l’artista ha sperimentato materiali e tecniche senza muoversi da Los Angeles. I risultati più innovativi li ottiene nella scultura, alla quale assegna il compito di tramandare le memorie storiche dei luoghi meno celebrati del mondo. Materiali preferiti: gomma, lattice e cemento. La memoria intrisa nelle cose e le proprietà della superficie, della pelle, sono invece i suoi campi d’indagine preferiti.
La pelle, in particolare, è chiamata a giocare il suo ruolo di involucro, rivestimento, testimonianza e superficie di contatto sia per le persone che per gli oggetti. In quest’ottica, anche i rilievi architettonici diventano la pelle – le rughe? – di una realtà tangibile.
Le sue “porte” (i lavori presenti in GAMec si intitolano: Blue Screen Door e Concrete Screen Door with Hole e Bricks) sono calchi in lattice di alcune porte in legno appartenute a una casa di due piani andata in fiamme. Il materiale è l’essenza dell’opera: come la pellicola fotografica fissa l’immagine sul piano, il lattice trattiene in sé la forma tridimensionale dell’oggetto colto in un momento preciso, conferendogli la patina del tempo. L’esito di questo “fissaggio” è la scultura così come la vediamo, posta in quell’album che è la sala d’esposizione.
La mostra sarà accompagnata dalla più completa monografia mai realizzata sul lavoro dell’artista. Il catalogo, edito Mousse Publishing, documenta più di 140 lavori e la cronologia completa della vita dell’artista. La pubblicazione è stata resa possibile grazie al supporto della Andy Warhol Foundation for the Visual Arts.