Quattro milioni di telespettatori

Ma quanto piace Techetechetè

Ma quanto piace Techetechetè
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Techetechetè: il successo dell’estate di Rai Uno. Una buona messe di ascolti (tra 3.500.000 e 4.000.000 di telespettatori, con uno share che oscilla tra il 15 e il 20 percento), una cadenza quotidiana che fidelizza la visione, una bella ricerca di incastri tra le trasmissioni più varie dei primi sessant’anni della tivù di stato, montati con un ottimo ritmo. Eredita l’idea alla base di DaDada, poi trasformatosi in Supervarietà: una scelta intelligente di video-frammenti, che abbiano un qualche riferimento al tema deciso per la puntata, e che sappiano sommarsi o stridere tra loro, creando dei cortocircuiti d’attenzione e d’ironia, il cui fine è divertire e sorprendere il telespettatore.

Obiettivo centrato, vista l’attenzione dedicata a questo programma, adatto a tempi di spending review: una struttura tecnica agile e minuscola che, a costi bassissimi, occupa quasi tre quarti d’ora della prima serata della rete pubblica più importante. Certo il giacimento da cui attingere, le mitiche e forse mitizzate Teche Rai, è immenso: si parla di 300.000 ore di trasmissione, che in futuro saranno completamente digitalizzate (si prevede entro il 2019) ma già consultabili presso vari istituti pubblici. Fin qui l’antefatto e il retrobottega. Resta però fitto il mistero relativo al successo di questo Blob quasi tutto in bianco e nero.

Se per la creatura del loverese Enrico Ghezzi, arrivata in piena salute alle nozze d’argento con il pubblico, è abbastanza assodato che il meccanismo vincente stia nel punto di vista blobbesco sull’attualità, situazione ben più inaspettata è che spezzoni di trasmissioni antiche, dimenticate in buona parte, sappiano ancora avvincere il teleutente d’oggi. Per chi ha, più o meno, la stessa età della RAI il primo pensiero va all’effetto nostalgia: si rivedono i cantanti e i comici mattatori delle tante serate in cui esisteva un unico canale e si pensa a quanto erano bravi, professionali e divertenti. Si colgono ancora allusioni a fatti e personaggi che ricordano solo quelli che c’erano. È insomma una rimpatriata nel passato, insaporita con un pizzico di risentimento verso il presente televisivo che appare, indubbiamente, più becero e superficiale.

La sorpresa viene da chi non era ancora nato quando Aldo Fabrizi si esibiva nello scolaro Gigino: la prima impressione che si prova è quella di una televisione povera. A parte il bianco e nero, le scenografie erano spesso fondali dipinti con tratti quasi naif, e i microfoni erano gelatoni ingombranti, appesi a fili lunghissimi per permettere al cantante di esibirsi nelle mosse coreografiche previste dal brano (un accenno piccino piccino ai videoclip ancora lontani da apparire). C’è poi il capitolo abbigliamento e pettinature: goffi e larghi i vestiti d’allora, gonfie ed elaborate le capigliature. Neppure giustificabili come vintage! Vecchiume puro, inutilizzabile come esempio da copiare, e fastidioso ad una vista abituata a ben altro. Per lo meno al colore (i pochi brani colorati trasmessi risultano pallidi), e poi a scenografie imponenti e lustre, tridimensionali ed elettroniche, dai movimenti perfetti e senza inciampi. Techetechetè unisce davanti al teleschermo le generazioni, e le aiuta a confermarsi ciascuna superiore alla altre. Almeno dal punto di vista tivù.

Resta comunque un altro mistero legato a Techetechetè, stavolta di davvero difficile soluzione. C’è una voce fuori campo che alla fine della trasmissione scandisce nomi e cognomi dei personaggi che appaiono in velocissimi siparietti utilizzati per coordinare le varie sezioni. Un gioco finale è stare a guardare quanti se ne sono riconosciuti. E questo va bene. Quello che proprio non si capisce è perché a interpretare questa voce, in un italiano dal fortissimo accento inglese, sia stato scelto Johnny Charlton. Perché il chitarrista dei Rokes (il gruppo scioltosi nel 1970, famoso per Che colpa abbiamo noi, È la pioggia che va e altri successi) sia diventato la voce ufficiale  della nostalgia televisiva. Forse neppure Voyager (o Kazzenger, se si preferisce) riuscirà mai a spiegarci quest’arcano italiano.

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