Un articolo di Slate.com

Una vita con smartphone e affini? Ma sì, non facciamone una tragedia

Una vita con smartphone e affini? Ma sì, non facciamone una tragedia
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Riproponiamo in traduzione un articolo di Melissa Jayne Kinsey apparso su Slate.com il 31 agosto 2015.

 

«La seconda volta che sono stato picchiato e ho perso il mio iPhone lo scorso inverno, sapevo già cosa avrei dovuto fare», ha detto Kevin Allison, conduttore del podcast Risk!. «È meglio mollare gli alcolici, non il telefono. Vi sembro un santo?».

L’idea che siamo troppo dipendenti dai nostri telefoni non è affatto nuova – già nel lontano 2007, parlavamo dei drogati di blackberry. A quell’epoca, alcune autorità sanitarie speculavano sulla paura che parlare al telefono cellulare per periodi di tempo lunghi avrebbe esposto gli utenti ad alte dosi di radiazioni elettromagnetiche, causando «un’epidemia di tumori indotti dai cellulari» – una crisi della salute pubblica che di fatto non si è mai materializzata. Ciò nonostante, ora che i nostri telefoni evolvono in utensili sempre più versatili, la preoccupazione riguardo al loro utilizzo è cresciuta. Gli impiegati controllano le loro e-mail per ore invece di lavorare! Gli uomini potrebbero usarli per guardare siti pornografici! La preoccupazione è solo diventata sempre più delirante all’uscita di ogni nuovo gioco ingegnoso, podcast, blog, piattaforma di social networking, servizio streaming di musica, app per aumentare la produttività, dispositivo da sincronizzare.

Il termine dipendenza da smartphone ha preso piede nel 2012, quando la ricerca di quella frase nella barra di Google ha cominciato la sua ripida ascesa. Inizialmente l’idea era quella di descrivere sarcasticamente un fenomeno sociale più che di affibiargli una diagnosi medica. A dirla tutta, controllare il nostro schermo più volte in un’ora rispetto al nostro vicino rimane motivo di orgoglio. Ma i continui attacchi con titoli di prima pagina allarmanti e statistiche pessimiste sembrano essersi impossessati del nostro buonsenso, lasciandoci suscettibili alla stupida credenza che l’uso eccessivo del nostro smartphone sia realmente un disturbo medico. Gli specialisti delle dipendenze comportamentali vorrebbero renderlo ufficiale, inserendo la dipendenza da telefono cellulare proprio accanto a quella per il gioco d’azzardo, alle abbuffate alimentari, agli scatti d’ira e a un mucchio di altri disturbi ora riconosciuti come reali patologie.

 

 

Il processo della medicalizzazione della dipendenza da smartphone è iniziato quando alcuni ricercatori cominciarono a pubblicare noiosi discorsi accademici riguardo quanto fino ad allora era rimasto una mera curiosità popolare. Gli esperti hanno quindi cominciato a coniare neologismi angoscianti come ringxiety (ansia causata dal suono o dalla vibrazione fantasma del proprio cellulare) e phubbing (da phone-snubbing ossia trascurare le persone intorno a noi in favore del proprio smartphone). Con le loro facce in ordine hanno introdotto la Scala per misurare l’Uso Problematico del Telefono Cellulare, la Scala di Dipendenza da Smartphone e altri strumenti con cui valutare la gravità della nostra condizione. Esperti nel campo delle dipendenze stanno addirittura assumendo nuovi ricercatori che possano evidenziare le connessioni esistenti tra l’uso degli smartphone e l’ansia, l’insonnia, la depressione e altri malanni.

A onor del vero, i dispositivi cellulari tentano di farci accumulare più tempo sullo schermo di un giocatore di slot con una bombola d’ossigeno e una carta di Bally’s (famosa catena di Hotel e Casino a Las Vegas e Atlantic City, ndr). Ma chiamare questa brutta abitudine una dipendenza è al tempo stesso un’esagerazione del problema e una banalizzazione dell’abuso di sostanze. Forse siamo così attenti a medicalizzare il nostro uso del cellulare perchè una diagnosi potrebbe essere una scusa pratica per un comportamento ottuso come quello menzionato sopra, il phubbing.

Il processo di medicalizzazione estende i confini della malattia, potendovi includere nuovi pazienti ad ogni opportunità. Esso trasforma alcuni comuni fenomeni umani – distruggere funzioni del nostro corpo, essere poco propensi ai cambiamenti della vita, comportarsi in maniera poco convenzionale o l’avere tratti di personalità e pensieri disturbanti, per esempio – in condizioni mediche trattabili.

 

 

La riclassificazione del gioco d’azzardo come una dipendenza, invece che come una compulsione, ha costituito il primo passo verso la medicalizzazione di tale comportamento. Questo cambiamento apparso nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Satistico dei Disturbi Mentali (DSM), un influente catalogo delle malattie mentali, ha legittimato l’esistenza delle dipendenze non-da-sostanze come una categoria diagnostica a sè. Al contrario di una patologia, che ha una causa diretta e identificabile, una dipendenza da una non-sostanza è definita solo dai suoi sintomi – è l’uovo senza la gallina. Come risultato, «virtualmente ora ogni cosa potrebbe essere considerata come patologica».

E, virtualmente, ogni cosa lo è stata. Fino ad ora abbiamo tutti sentito parlare di dipendenze da sesso, esercizio fisico e lavoro. Ma cosa ne dite delle dipendenze da abbronzatura, bodybuilding, cartomanzia o dall’amore? A quale punto, esattamente, uno si qualifica come un drogato e non semplicemente come un tipo strano, un narcisista, un credulone o un imbranato? Siamo diventati deboli, preoccupati della nostra salute mentale come di una vecchia Jaguar – carina da avere ma delicata, inaffidabile e continuamente bisognosa di riparazione e manutenzione.

L’aspetto più insidioso di questa specie di commercio di malattie, però, è nella sua natura conformista. Trasformare normali comportamenti ed emozioni in diagnosi appiattisce la curva a campana delle esperienze umane, reprimendo le idiosincrasie e le fissazioni che stanno ai margini. Possiamo marciare a ranghi serrati oppure avventurarci nella una terra di nessuno dei malati mentali. Siti come Anxiety.org e the Fix hanno già cominciato ad associare la dipendenza da smartphone a depressione, ansia, disturbi del sonno così come a presunte anomale condizioni fisiche come l’iPostura.

 

 

Trattamenti disponibili per la dipendenza da cellulare vanno dalla riabilitazione a guide fai-da-te per la disintossicazione che aiutano a valutare il proprio modo di utilizzare il telefono, fissare obiettivi e mappare i propri progressi. Uno smartphone surrogato fatto di plastica e legno può essere usato nel periodo di svezzamento come una sorta di lenzuolo di sicurezza elettronico – l’equivalente di far tenere in mano una sigaretta spenta a qualcuno che sta cercando di smettere di fumare. E Manoush Zomorodi, il tenero nevrotico conduttore del podcast Note to Self, suggerisce una serie di sfide senza scopo tra ascoltatori irascibili, come una specie di terapia di regressione. Ad un tale livello di assurdità, può essere davvero solo una questione di tempo prima che i medici comincino a trattare le lamentele dei loro pazienti con Xanax, Prozac, Ambien o simili.

La letteratura medica sulla nomophobia (la fobia di restare senza cellulare) è argomento di studio all’interno della assurda gravità che è stata attribuita a questo tema. Nicola Bragazzi e Giovanni Del Puente propongono di inserire la nomophobia tra le nuove diagnosi nel prossimo aggiornamento del DSM – 5. Quando gli viene chiesto se questa ulteriore inclusione potrebbe aumentare la confusione sul concetto di dipendenza, eludono la domanda. «Il DSM – 5 sta evolvendo in modo da includere nuove nosografie e disturbi contemporanei», hanno risposto. «La diffusione degli smartphone nella nostra società è tale da rendere necessario esplorare questa nuova diagnosi».

Per quanto riguarda la nomophobia, gli autori utilizzano un vocabolario degno di Lancet. Analizzano le possibili comorbidità, discutono eventuali diagnosi differenziali e offrono niente meno che dodici scale psicometriche concorrenti. Per stabilire l’epidemiologia di questo disordine, citano un articolo del Daily Mail che riporta un sondaggio delle Servizio Postale britannico secondo cui il 53 percento degi inglesi soffre di dipendenza da smartphone. Se più della metà della popolazione ne è affetta non si tratta solo di un dato di fatto?

 

 

La copertura dei media riguardo all’argomento ha montato la nostra apprensione ai massimi livelli. John Laprise, un professore di comunicazione della Northwestern University in Qatar, è una delle poche voci ottimistiche in un mare di commentatori guastafeste sull’argomento. Scrivendo da una indispensabile prospettiva globale, incoraggia tutti noi a considerare i nostri smartphone come strumenti di auto-efficacia. Mentre cavalchiamo l’onda del cambiamento abbattendo le sponde sociali, economiche e politiche, il telefono cellulare rappresenta la connettività, l’individualità e la possibilità di scelta.

E se fosse diventato una specie di protuberanza irrazionale? «Si tratta di un fenomeno completamente nuovo», ci ricorda Laprise. «Le persone non hanno mai avuto prima la possibilità di possedere una tecnologia così intimamente propria, personalizzabile e di così grande utilità». In altre parole, siamo così legati ai nostri dispositivi perchè ci servono e perchè ci piacciono.

I luddisti prevedono che non appena ci stancheremo dei nostri piccoli giochini, verremo fuori da questa sbronza collettiva da iPhone. Ma noi lo sappiamo meglio di loro, vero? Sia che lo stiamo indossando, tenendo in mano o impiantando sotto la nostra pelle, ognuno di noi sarà accompagnato da un dispositivo di collegamento più o meno per tutto il tempo per il resto della sua vita. Quindi cerchiamo di esercitare qualche sorta di autodisciplina, ricordiamoci le buone maniere e smettiamo di lamentarci a riguardo, per carità.

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