Un saluto affettuoso ad Andrea Spada

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Il 1 dicembre di dieci anni fa moriva Andrea Spada, il Direttore storico - con la “d”maiuscola - de L’Eco di Bergamo. “Il secondo fondatore” del giornale, lo aveva definito il vescovo-editore Roberto Amadei (il primo era stato Nicolò Rezzara nel 1880) che in cinquantun anni di direzione, un record mondiale, trasformò un “bollettino parrocchiale” nel quotidiano della gente bergamasca. Un amico di famiglia di tutte le famiglie orobiche. Quando don Spada si insediò, L’Eco vendeva poche centinaia di copie, quando lasciò era intorno alle 60mila, primo o secondo quotidiano locale d’Italia. Un’impresa ch’era follia sperar, per usare le parole del poeta.

Ad Andrea Spada la città ha dedicato una piazzetta proprio davanti alla sede del giornale in Viale Papa Giovanni. È già qualcosa. Ma a ricordarlo con maggiore affetto sono i suoi amici della Valle di Scalve: con l’associazione che porta il suo nome e con pochi mezzi a disposizione ogni anno si danno da fare per tener viva la memoria “del don Andrea”, come lo chiamavano loro. Don Andrea perché – lo diciamo ai giovani che forse non lo sanno – Spada era un prete. Prima di tutto un prete. Alto, col cappello e due occhi azzurri come il cielo terso in montagna. Un sacerdote aristocratico, che incuteva soggezione. Ad alcuni che lavoravano con lui, anche paura. Un duro, nella lingua di oggi.

Io però non l’ho conosciuto così. Lo incontrai che era già vecchio, oltre gli ottanta, e a me parve - e con me è stato sempre - un uomo dolcissimo. Un vero signore, una persona squisita. Veniva a trovarmi in redazione, ogni tanto. A L’Eco aveva costruito tutto lui, ma quando entrava chiedeva permesso e mi chiamava direttore. Lui a me. Al ristorante ha sempre pagato lui e non c’era verso. Adesso riposa nel cimitero di Schilpario, dove era nato e dove si era ritirato, in una cappelletta accanto ai suoi cari. A pochi metri di distanza è sepolto un altro giornalista bergamasco, Paolo Impellizzeri. Andava in vacanza lassù e giocavano a carte insieme. Uno prete, l’altro laico proprio nel senso di anticlericale. Almeno fino al giorno in cui don Andrea, ricordandosi dell’anniversario della morte della mamma dell’amico, gli disse: «Domani celebro per tua mamma». Paolo rimase anticlericale tutta la vita, ma voleva un bene dell’anima a don Spada.

I due avevano un’altra cosa in comune: conoscevano la solitudine. E ne soffrivano, anche se non andavano in giro a dirlo. Spada lo fece capire suggerendo a uno dei vescovi della sua vita di non mettere mai più un sacerdote alla direzione del giornale: trovarsi soli in mezzo alle tempeste di tutti i giorni è troppo dura, diceva. Impellizzeri lo faceva intuire: viveva soprattutto di notte, anche per gli strani orari assunti in tanti anni di lavoro nei giornali. Adesso è bello andare a salutarli insieme.

Ricordo bene la mattina in cui Andrea Spada tornò alla casa del Padre: la telefonata del nipote - Andrea anche lui -, il silenzio, il dolore e il timore di non essere capaci di ricordarlo a dovere. La riunione di redazione, l’incredibile lavoro compiuto in un solo giorno. Soprattutto il dolore. Soprattutto ho presente il dolore che provai.

Eppure non avevo lavorato un solo giorno con lui. Non avevo condiviso la vita di redazione come tanti altri giornalisti. Si potrebbe dire che lo conoscessi appena. Ma lui mi aveva voluto bene. Non so ancora perché, so che mi ha voluto bene. E lo dimostrò mille volte. Una in particolare: quando il vescovo, che era anche editore, gli chiese di starmi vicino («E’ giovane, stia vicino al nuovo direttore») lui, forte di un’esperienza ricca anche di amarezze, gli rispose lapidario: «L’importante, eccellenza, è che gli stia vicino lei». Se l’editore latita o si tira indietro, il direttore è in balia degli eventi (e degli amministratori) e il prodotto ne risente. Funziona così. O meglio, così non funziona. Tante cose della crisi dei giornali si spiegano a partire da qui.

Non si può però ricordare Spada senza ricordarne l’eredità. E la sua eredità più importante è L’Eco di Bergamo: il “bugiardino”, come lo si chiamava una volta (poco male: in Piemonte “La Stampa” la chiamavano “la bugiarda”) o “il giornale dei morti”, come dicono quelli che si lamentano per le due-tre pagine di necrologie quotidiane, subito dopo averle fatte passare minuziosamente. È il destino dei giornali popolari - quelli letti dalla gente comune e meno dalla borghesia illuminata - di essere presi un po’ alla leggera. Tutti che si lamentano, ma tutti che li sfogliano. E va bene così. D’altra parte, a uno di casa si potrà pur dire quel che si vuole.

L’Eco di oggi non vende più sessantamila copie: l’epoca d’oro è finita da un pezzo e - vale per tutti i giornali - andare avanti è sempre più faticoso. Qualcuno si ostina a dire che i quotidiani cartacei moriranno nel giro di una decina d’anni. Speriamo vivamente di no.

Anche perché L’Eco rappresenta un patrimonio per Bergamo: una voce alla quale non possiamo rinunciare, una ricchezza che, in un certo senso, appartiene a tutti. Si potrà parlarne male fin che si vuole, ma questi fogli di carta – soprattutto grazie a don Spada - sono diventati parte della nostra identità e perderli sarebbe un vero peccato. Immaginate una città al contrario: senza il suo quotidiano di riferimento, con una squadra di calcio in mano a gente che non ci crede e una banca priva di radicamento nel territorio. Non sarebbe più Bergamo.

Anche per l’affetto che ci ha legato a don Andrea, auguriamo a L’Eco una lunghissima vita al servizio dei bergamaschi.

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