«Vorrei rivedere i portoni aperti, i bambini correre in via Pignolo»
Piero Aresi è nato a Bergamo il 12 gennaio del 1934. Ha cominciato a lavorare nel 1947 da un artigiano che fabbricava zoccoli. Nel gennaio del 1952 è entrato alla Dalmine. Nel 1954 è partito come marinaio e l’anno dopo ha visitato Pompei: in un chiosco di souvenir, ha conosciuto Anna. Hanno messo al mondo tre figli. Dal 1964 in Comune, dal 1971 commesso della farmacia comunale. Nel 2012 un ictus lo ha costretto sulla sedia a rotelle. La sua passione è sempre girare per la città, ma adesso deve aspettare che qualcuno lo spinga.
«Vorrei che si aprissero di nuovo i portoni, vorrei rivedere i cortili. Prima di andarmene mi piacerebbe rivedere la Pignolo di una volta, con i bambini che giocano per strada, tanti bambini e tanti papà che tornano la sera in bicicletta. Adesso siamo tanti vecchi. La mancanza dei bambini è una tragedia. Questo è il vero problema».
Tu sei nato e cresciuto in Pignolo.
«La nostra famiglia vive nel quartiere più o meno dal 1890. In via San Giovanni abitiamo dal 1935. Prima la famiglia stava in piazzetta Santo Spirito».
Una zona molto tranquilla, signorile.
«Ma neanche per sogno. Adesso sì, adesso è un mortorio. Chissà perché si confonde la signorilità con il mortorio, la tranquillità con la monotonia, ma sono cose diverse. Io sono del 1934, di gennaio. Quando ero ragazzo, Santo Spirito era animatissima, ci passava il tram, c’erano tanti negozi, botteghe, osterie, la chiesa era sempre aperta. Nelle funzioni era sempre piena, anche di giorno feriale. Quando ero bambino, mia nonna mi portava spesso alla Messa Prima. Era alle cinque. E in chiesa c’era tanta gente. Si diceva: “Messa ascoltata, giornata guadagnata”».
Un altro mondo.
«Un altro mondo. Che sembra così lontano da quello di oggi. Mi ricordo che all’angolo tra la via Verdi e la via Pignolo c’era il bar Centauri. Al tempo, ci andavano soprattutto le persone anziane, era un’osteria. Si faceva un gran bere. Quando passava il parroco, la gente usciva dal bar, gli avventori si toglievano il cappello. Era monsignor Giuseppe Cavagna. Mi ricordo che eravamo orgogliosi perché il nostro parroco era un monsignore».
Adesso è diverso.
«Adesso credo che la maggior parte degli abitanti non sappia nemmeno chi sia il parroco. Adesso il mondo è più complicato, ci sono tante cose. È incredibile se penso alla semplicità del nostro mondo. Eppure bastava poco ed eri contento. La gente si voleva bene. Tutte le porte erano aperte. Ti mancava il pane, avevi bisogno di un uovo, non c’erano problemi, andavi dal vicino di casa. Ci si salutava dalle finestre, nelle sere d’estate le donne scendevano in cortile, chiacchieravano. Anche da una finestra all’altra».
Era un mondo semplice.
«Ma perché era tutto diretto. Non avevamo televisione, videogiochi, Internet... A tavola chiacchieravi per forza. La sera ci trovavamo al bar o all’oratorio. Si parlava tanto. Io mi ricordo certe serate qua sotto, al Bar Torino che oggi è un ristorante indiano (vedi come sono cambiati i tempi?). Tiravamo notte a discutere di Bartali e Coppi. Ore e ore. E qualche volta un papà disperato usciva alla finestra e ci urlava di tacere».
Hai lavorato a Dalmine, hai fatto l’operaio.
«Lo ricordo come fosse adesso il giorno in cui mi hanno mandato la lettera di assunzione. Pensavo di avere vinto alla sisal, come dicevamo allora, cioè al Totocalcio che era la più ricca delle lotterie. Un posto alla Dalmine era il pane per la vita. Ero felice. Avevo diciassette anni».
Come è stato il primo giorno?
«Eravamo venticinque nuovi assunti, ci spiegarono un po’ di cose. Il giorno dopo ero in reparto, turno dalle sei del mattino alle due del pomeriggio, al laminatoio 2. Era il 3 di gennaio del 1952. Mi sembrava di essere all’inferno. Il caldo, il forno di laminazione. Arrivava la piletta a mille gradi, di acciaio, lunga un metro e poco più e lì il mandrino cominciava a colpire e la piletta diventava un tubo che poteva essere anche intorno ai dodici metri. Io stavo lì attento alla piletta che entrava nel forno e dovevo ruotarla con una specie di enorme tenaglia. Il forno aveva due aperture, da una parte entrava la piletta, dall’altra usciva il tubo. Ogni mezz’ora ti fermavi e riposavi. Una volta a luglio sono entrato in una vasca di acqua gelata , vestito com’ero, con la tuta. Morivo di caldo. Alla sera verso le sei e mezza-sette mangiavamo sulle cataste di tubi, il cibo ce lo portavamo da casa. Una delle prime volte al laminatoio mi scappò di fare pipì, ero lì alla piletta accennai a un compagno che dovevo fare il mio bisogno, lui mi disse che dovevo farla lì sul posto. In terra c’era la polvere di ferro alta quaranta centimetri. Una volta facevo la notte, ero stanchissimo, dalla mezzanotte e dieci alla mezzanotte e mezza si poteva riposare, allora mi sono infilato in un forno spento sperando di farla franca e dormire magari un’oretta. Lo sportello era aperto. Mi fecero uno scherzo e lo chiusero. Che spavento».
Non è stato il primo lavoro.
«No. Avevo cominciato a lavorare a dodici anni di fronte a casa mia, da Locati, facevano gli zoccoli in legno. Frequentavo la seconda commerciale, che era come le medie di oggi, la guerra era appena finita. Era il febbraio del 1947. Io non so dire perché ho lasciato la scuola. Una mattina anziché andare in classe sono andato al negozio di zoccoli a chiedere di lavorare. Mi hanno preso subito. Eravamo poveri, certo, ma come tutti gli altri. In fondo, ce la cavavamo. Volevo darmi da fare. Non è facile spiegare, oggi. Ma tutti, intorno a me, si davano da fare. Venivamo fuori dalla guerra, avevamo problemi enormi».
Di più di oggi.
«Come?»
Di più di oggi?
«Stai scherzando? Venivamo da una guerra, da un disastro. Io avevo undici anni e mezzo il giorno della Liberazione e mi ricordo benissimo i tedeschi che scappavano, i partigiani. All’angolo fra la via Pignolo e la via San Giovanni c’era un tabaccaio. Spararono da là e colpirono una persona a una gamba, me lo ricordo benissimo e tutti scappavano, la gente per strada e anch’io scappavo verso casa. E quando è stato arrestato Sporchia, il partigiano della banda Turani, me lo ricordo perché ero lì che giocavo in quel cortile di via San Tommaso. Ho visto arrivare i nazifascisti, li ho visti salire verso il suo appartamento. E mi ricordo le urla dei torturati che uscivano dalle stanze del Collegio Baroni, dove adesso c’è l’università, in cima a via Pignolo. Mi chiedi se era peggio di oggi? Ma sai qual è il disastro di oggi? Che voi non vi rendete conto della vostra fortuna. Del fatto che potreste fare grandi cose e invece... Io vado in giro con la mia carrozzina, e vedo un sacco di facce tirate, tristi. Ci vuole un colpo d’ala, bisogna aprire gli occhi sulla realtà. Adesso vedo tanta paura. Sui giornali leggo solo di sicurezza. Paura, bisogno di sicurezza. Leggo che il problema dell’Italia sono quei poveri emigranti, neri e straccioni. Incredibile».
Che cosa dici dei neri?
«Che sono come noi. Forse migliori. Viene un ragazzo di colore, del Senegal, e mi porta a spasso e, siccome qualche anno fa, quando stavo bene, gli avevo dato un piccolo aiuto, non vuole nemmeno un euro. Si arrabbia se lo voglio pagare».
A dodici anni sei andato a lavorare.
«Ma sì. Perché vedevo intorno a me tutte queste persone che si davano da fare, c’era questo desiderio di ricostruire, lo respiravi. La psicologia è importante. Se vivi in una situazione depressa, ti deprimi anche tu. Allora invece c’era un desiderio incredibile di rinascere. Tutti si davano da fare, tutti. E io ero stato contagiato e nel mio piccolo mi sono impegnato. Prima dai Locati. A dodici anni con la bicicletta a tre ruote con il cassone davanti portavo montagne di zoccoli a Villa d’Almè. Una volta ho forato, era sera, si addensava il temporale e non riuscivo più a tornare a casa. A un certo punto, sullo stradone, ho visto mio padre in bicicletta che veniva a prendermi. Poi sono andato a lavorare dal fotografo Birondi in via Tasso e quindi nell’officina di riparazione delle automobili Longoni che stava lì alle Muraine. Ma il punto è questo: allora la situazione era terribile, fatta di morti e rovine. Però ci siamo rialzati. Anche oggi dovremmo guardare la realtà in quel modo. Sai qual è il problema?».
No.
«Te l’ho detto: che non ci sono più bambini, che non ci sono giovani. I bambini ti fanno vivere. Io sono vecchio, quando vedo un bambino per strada provo gioia. Oggi la società se fai dei figli ti bastona. Tu lo sai. Incredibile ».
Tu eri un grande tifoso di Coppi.
«Sì. Dicevo che passavamo le serate a discutere sotto casa. E ci infiammavamo, al punto che tiravamo anche mezzanotte e allora ci intimavano di zittirci. Adesso ti confesso una cosa. Lo sai che non ho mai perso un giorno di lavoro e che ho lavorato per cinquantatré anni prima di arrivare alla pensione. Sono stato alla Dalmine fino al 1964, poi mi hanno assunto al Comune di Bergamo come usciere, e nel 1971 hanno aperto la farmacia comunale di via Verdi e sono stato lì, come commesso, fino alla pensione».
Non hai mai perso un giorno di lavoro, lo so.
«Non è vero. Un giorno l’ho perso».
Quando?
«Era il 1953, era un sabato sera. Era il 29 agosto. Stavo andando al lavoro a Dalmine in bicicletta, facevo la notte, erano circa le nove di sera. Pedalavo per via Torquato Tasso, sono arrivato alla piazzetta San Bartolomeo e c’era un sacco di gente davanti al bar Excelsior. Un paio di loro mi conoscevano, mi hanno fermato e mi hanno detto che la mattina dopo, verso le quattro, sarebbero partiti con il torpedone per andare a Lugano a vedere il mondiale di ciclismo, mi hanno chiesto di andare con loro. E sono andato».
Hai perso il giorno di lavoro.
«Sì».
E come è andata?
«Fu il grande mondiale di Coppi, quello che vinse scattando sulla Crespera. Io e i miei amici eravamo lì, io l’ho visto scattare, lì, vicino a me. E ti racconto un particolare: quando abbiamo visto Coppi e Derijcke in fondo al rettilineo in salita, un tifoso ha urlato: “Tutti in ginocchio, arriva il messia”. E tutti ci siamo inginocchiati».
Incredibile.
«Sì, è andata così».
Se tornassi indietro che cosa non faresti?
«Lo sai che non è facile rispondere. E sai che io ho conosciuto tua madre quando ero marinaio di leva, per ventisei mesi. Un periodo meraviglioso. Ero nel porto di Castellammare di Stabia con la corvetta Albatros e sono andato a visitare gli scavi di Pompei e sai che tua madre aveva diciannove anni e vendeva i souvenir davanti agli scavi. Ho perso la testa per tua mamma».
Lo so.
«Ho sposato tua madre il 27 aprile del 1957. Lei viveva in mezzo alla gente, agli stranieri, faceva la commerciante. A casa erano in dieci fratelli... e sai come sono espansivi loro. Il 30 di aprile del 1957 lei era in un appartamento alle Crocette di Mozzo. Tu sai che cosa significa? Allora i “terroni” erano visti molto male. E lei a ventuno anni, da sola, in quel posto isolato. E io che facevo i turni e a casa c’ero poco. È stato difficile per lei, oggi penso che le ho chiesto troppo. Ma ero così giovane anch’io, avevo ventitré anni, non mi rendevo conto. Ecco, tornassi indietro prenderei una casa in centro a Bergamo, vicino ai miei familiari. Per tua madre sarebbe stato molto meglio».
Non era stata una decisione facile.
«Io ero innamorato. Ti dico di più: ero innamorato di quel mondo. Quello era un mondo così diverso dal nostro, era allegro, aperto, espansivo. Mi aveva aperto il cuore. Quando ero partito da Bergamo, tutti mi avevano detto di stare attento, di non fidarmi, che erano tutti ladri. Ero arrivato alla stazione di Castellammare di Stabia e dovevo andare alla caserma della Marina. Fuori c’era un vetturino con la carrozzella. Mi ha chiesto dove andavo, ma io ero guardingo, impaurito. Lui mi ha detto che la caserma era lontana, che mi ci avrebbe portato lui. Al momento ho detto di no, ma poi mi sono lasciato convincere, molto preoccupato. Mi ha portato fino là. Ero sicuro che mi avrebbe svuotato il portafogli, già molto magro. Gli ho chiesto che cosa gli dovevo. Ce l’ho ancora davanti agli occhi, il cavallo, la carrozzella di legno chiaro; lui, su a cassetta, con il berretto, che fa un gesto con la mano, e dice: “Ma cosa mi vuoi dare, marinaio, vai vai e stai contento”».