Areté, dove si coltiva la speranza
A due passi dal centro di Torre Boldone, sulla strada che collega Gorle, c'è un’insegna: «Areté Cooperativa Sociale». Entrando dal cancello, quattro ettari di terreno, le serre e il negozio biologico danno il benvenuto al visitatore. Quella che può apparire a un primo sguardo una vecchia casa, è in realtà una cascina con loggia e travi in legno che nulla ha da invidiare a L’albero degli zoccoli. Come nel film di Olmi, anche in questo caso la cascina ospita storie che si intrecciano, custodisce esperienze di vita dure e drammatiche, tutte accomunate dalla voglia di riprendersi in mano e lottare per la propria serenità.
Sinergie e nuovi progetti. A coordinare l’attività di magazzino dei prodotti biologici c’è Marco, pirata moderno dei campi, capelli lunghi neri raccolti sotto il cappellino con fascia per riscaldarsi le orecchie dal freddo pungente di gennaio, un paio di orecchini ad anello in argento, barba incolta, tenuta da lavoro. Trentacinque anni, di Bergamo, laurea in Scienze dell’Educazione, da tre anni lavora in cooperativa. «Ognuno ha il proprio settore di competenza, ma l’interscambio è indispensabile per dare vita a nuovi progetti, creare sinergia e migliorare l’attività, dal confronto nascono i progetti migliori». Marco si occupa di gestire i rapporti con gli enti invianti e gli inserimenti degli utenti individuati tra persone con disagi psichici, socio economico e i detenuti, nei cinque settori: il negozio di vendita al dettaglio, la campagna, il magazzino di vendita all’ingrosso e negli uffici commerciali e amministrativi. In cantiere c’è un nuovo settore: un vivaio riscaldato, dove verranno coltivate piantine per la campagna e saranno vendute anche in negozio, si tratta di una novità per la provincia, una sfida per la cooperativa, che già da anni ha fatto del biologico il suo marchio di fabbrica.
Una seconda possibilità. Ma l’obiettivo più importante riguarda il reinserimento. «Ogni storia è a sé, l’importante è avere a disposizione una seconda possibilità da cui ripartire. Lavoro stabile, relazioni sociali, vita regolare aiutano a stabilizzarsi e a non tornare sui vecchi sentieri erranti. Areté mette a disposizione uno spazio tempo protetto di lavoro creando anche momenti importanti di socialità - prosegue Marco - percepire se stessi non come persone in difficoltà bisognose di assistenza, ma assumere il ruolo di “lavoratore” aumenta l’autostima, l’aspetto relazionale ne trae beneficio, sconfiggendo l’emarginazione e migliorando anche le proprie capacità. Tutto ciò porta a una maturazione e consapevolezza necessarie per uscire da Areté e conquistare il mondo con le proprie forze».
Sergio, 65 anni, ristorazione. Tra gli utenti c’è Sergio, 65 anni, una vita passata a Milano a lavorare nell’ambito della ristorazione, poi la crisi del 1993, la società che possiede fallisce e si ritrova a dover gestire una situazione difficile. Grazie all’assistente sociale nel 2011 giunge in cooperativa, dove, in base alle competenze, gli affidano il ruolo di responsabile mensa. Sergio viene tre giorni a settimana, arriva alle 11.30, prepara i tavoli, i contorni, le porzioni per 10-15 persone, sistema la sala e alle 15.30 finisce il turno. Ma il suo ruolo va oltre. «Quando arrivano persone nuove spiego come funziona la mensa e le aiuto ad ambientarsi, cerco di farle socializzare con gli altri ragazzi, diciamo pure che mi occupo delle pubbliche relazioni - racconta Sergio con tono preciso e pacato - Inizialmente ero un po’ titubante, abituato alla realtà di Milano, poi mi sono adeguato e adesso mi trovo bene, i rapporti con i colleghi sono ottimi, alla base di tutto c’è il rispetto. In questi sei anni sono passate molte persone ma ciò che mi ha colpito sono stati i cambiamenti a livello personale e nel porsi verso gli altri, senza dubbio se ne sono andati migliorati».
Oscar, 50 anni, dal carcere. Al lavoro c’è anche Oscar, 50 anni originario di Montello, cappellino calato sugli occhi neri, due tatuaggi sul collo: un tao e un cuore con la scritta Love. «Questo l’ho fatto l’anno scorso, sai come sono le donne, lei insisteva, però sono stato chiaro, niente nome, perché mi conosco. E infatti dopo un po’ ci siamo lasciati». Oscar non ha problemi a raccontarsi: un passato turbolento, cocaina prima, eroina dopo, negli anni Ottanta, in cui la droga è stata il flagello per molti. Entra in comunità, mette la testa a posto, casa, macchina, si sposa, la ditta in cui lavora fallisce, perde il lavoro da carpentiere, i soldi mancano, si separa e ricade nel circolo vizioso. Un giorno ha bisogno di denaro e si improvvisa rapinatore. Lo arrestano. «Nessuno è preparato per il carcere, tantomeno io. Passano le giornate e te ne stai lì a non fare nulla, ti senti inutile. Ho fatto trenta richieste per svolgere i servizi, nessuna risposta. C’è un lato positivo, durante questi mesi ho avuto modo di riflettere. Sì, il carcere mi è servito a una cosa: dare un taglio netto con il passato».
Mentre era in comunità Oscar aveva sentito parlare di Areté, il destino ha voluto che anni dopo la cooperativa lo accogliesse. «Mi ritengo fortunato, le esperienze di reinserimento di alcuni miei compagni non sono altrettanto positive. Sono stato accolto come in famiglia, non mi sono mai sentito giudicato ma accettato nonostante il fardello che mi porto dentro: ho trovato comprensione, propositività, un clima sereno e di rispetto reciproco». Oscar ha inciso sugli avambracci due frasi, la vita inizia dove finisce la paura e solo dopo essere stato all’inferno potrai apprezzare il paradiso, se li è fatti fare in carcere, confessa che non si potrebbe, in realtà il tatuatore è sempre al lavoro. «Quando mi hanno detto che c’era l’opportunità di lavorare in Areté ho accettato subito, andava bene qualsiasi cosa pur di uscire dal carcere. Così dopo un anno e otto mesi di reclusione sono uscito da via Gleno. La verità è che i primi giorni non mi trovavo bene. “Fatemi ritornare in carcere”, dicevo. Poi mi sono ambientato e tutto procede per il meglio. Una seconda possibilità di vita, questo è il momento per ripartire da dove sono, qui e ora con la consapevolezza di aver fatto delle scelte sbagliate in passato ma che da adesso in poi posso scegliere chi essere veramente». A Oscar è stato assegnato un appartamento dell’associazione Carcere e Territorio, ha il permesso di uscire dalla città di Bergamo solo ed esclusivamente per andare a lavorare in cooperativa, dal lunedì al venerdì dalle 6.30 alle 12.30 dove è addetto ai campi. Pranza in mensa, poi ritorna in città, alle 21 deve essere a casa secondo il regime di affidamento. Gli manca ancora un po’ per finire di scontare la pena, ma un piccolo pezzo di libertà se l’è già conquistato.
Francesca, 40 anni, un passato da scordare. Nel nuovo laboratorio dove si assemblano i prodotti per un’azienda di vendita online c’è Francesca, 40 anni, un concentrato di grinta, caparbietà e una sicurezza che nasconde timidezza. «Raccontarmi non è il mio forte, sono introversa e faccio fatica ad aprirmi», questa è la premessa doverosa di Francesca, quando il raccontare in realtà altro non è che sfondare una porta ed entrare in un passato doloroso costellato da continui abbandoni, la famiglia d’origine prima, il marito e i tre figli poi, per passare a un convivente violento che più volte l’ha picchiata mandandola in ospedale. «Mi hanno chiamato un giorno dicendomi di preparare le valigie. Lui non c’era. In un’ora e mezza ero pronta per andarmene e cambiare vita. Il 7 marzo del 2016 sono arrivata al centro accoglienza di Torre Boldone. È iniziata così la mia nuova vita - Francesca inizia a parlare, la timidezza scompare, e gli occhi verdi brillano di emozione - Qua ho trovato la mia dimensione, il lavoro in magazzino mi piace ma a dir la verità ho fatto così tanti lavori negli anni passati che ho una capacità di adattamento veloce. Il lavoro per me è sempre stata la medicina, il fare mi permetteva di tenere lontano i problemi ». E alla domanda su quali siano le aspettative per il futuro Francesca risponde senza esitare: «L’indipendenza. Questo è ciò a cui più aspiro, essere indipendente economicamente ma non solo, ritrovare la fiducia in me stessa e nei rapporti con gli altri, dopo aver passato una vita a prendermi cura degli altri voglio ritrovarmi e prendermi cura di me stessa, poi se mi innamorerò di nuovo… vedremo. Le cose capitano».