I due amici del sentiero "549"
Domenica 15 giugno il “Sentiero 549”, che va da Gandino a Pizzo Formico, verrà dedicato a due alpinisti bergamaschi, Enrico Villa e Domenico Capitanio, che il 5 ottobre dell’anno scorso morirono tragicamente sul periplo del Resegone. Otto mesi dopo, il CAI ha voluto ricordare i due sfortunati soci della sezione di Bergamo, intitolando loro un sentiero che avevano percorso molte volte: è grazie alla passione e al lavoro di Villa e Capitanio se la sottosezione Val Gandino ha potuto inaugurare la Baita Monte Alto. Alle 10 sarà posta una targa in loro memoria presso la Madonnina della Guazza.
Capitanio aveva 70 anni, Villa 46: la differenza d’età rendeva il loro rapporto unico. «Erano due amici, due grandi amici. Tra loro c'era un rapporto paragonabile a quello di un padre con un figlio, il cui il fil rouge era l’amore per i monti e la passione per la natura che ci circonda», dice Piermario Marcolin, presidente della sezione orobica del CAI.
L'amico generoso
Pochi giorni prima di perdere la vita in quel salto nel vuoto, Domenico Capitanio aveva dichiarato ai suoi famigliari: «Ho avuto tutto ciò che desideravo nella mia vita. A questo punto posso anche andarmene». Il destino ha voluto che quel 5 ottobre se ne andasse proprio sui monti che hanno da sempre scandito il ritmo dei suoi settant’anni. Di origine scalvine ma residente ad Albegno di Treviolo, Capitanio veniva da una generazione di amanti della montagna e sin da piccolo imparò a conoscere ed a rispettare gli imponenti monti che lo circondavano. Fu alpino, poi divenne geometra ed iniziò ad insegnare in una scuola edile. Amava condividere con i più giovani le proprie conoscenze e metterle a disposizione degli altri. Entrò a far parte della sottosezione del CAI Val di Scalve e nel 1980 divenne membro del CAI di Bergamo. La sua passione per le escursioni lo portò anche a compiere diverse spedizioni extraeuropee, come quella da lui più amata sulle Ande. Mise a disposizione del CAI le proprie competenze professionali per migliorare i rifugi e fu proprio attraverso questa attività che strinse amicizia con Enrico Villa, presidente della Commissione Rifugi della sezione. Ispettore del rifugio Tagliaferri, dove nei prossimi mesi verrà organizzata una cerimonia in loro memoria, seguiva quotidianamente Villa nelle attività di ispezione. Sposato con due figlie, fu soprattutto con il nipotino che condivise la sua passione, iniziandolo alle prime escursioni in montagna ed ai piaceri semplici che la natura ti può offrire. Come ricorda il presidente del CAI di Bergamo, «era generoso con tutti. Non stento a credere che la sua morte sia arrivata nel tentativo di aiutare l’amico in difficoltà».
L’ingegnere dei monti
Enrico Villa, classe ’67, aveva la montagna nel dna: suo padre era un membro del CAI (fu vicepresidente della sezione) ed un appassionato escursionista. Il lavoro di istruttore di scialpinismo rappresentava per lui più che una professione e cercò di trasmetterlo al figlio. Ad appena 12 anni, nel 1979, Enrico si iscrisse al Cai, ma più che lo scialpinismo imparò ad amare la contemplazione della montagna. Militare alpino ad Aosta, dopo essersi laureato in ingegneria ed aver intrapreso la professione di ingegnere strutturista, mise anch'egli le proprie competenze a disposizione del CAI. Ricorda Marcolin: «La montagna senza rischi non esiste, non può esistere. Tutto quello che noi, come CAI, possiamo fare e cerchiamo di fare è lavorare sulla prevenzione, tentando di ridurre al minimo i rischi esistenti. Enrico Villa decise di mettere a disposizione di tutti noi la sua grande competenza professionale iniziando a dedicarsi con sempre maggior attenzione ai rifugi presenti sui nostri percorsi, che vogliono essere innanzitutto luoghi di sicurezza per gli escursionisti». Così Villa divenne presidente della Commissione Rifugi della sezione di Bergamo, vicepresidente della Commissione Regionale ed era in procinto di entrare a far parte della Commissione Centrale nazionale Rifugi. Condivideva la sua passione anche con il suocero, col quale Villa aveva percorso, proprio pochi giorni prima della morte proprio il periplo del Resegone. Non amava l’arrampicata o le strade ferrate, preferendo la tranquillità delle escursioni. Per questo motivo, chi lo conosceva respinge con forza le accuse di imprudenza che hanno seguito la morte dei due alpinisti. «Era una brutta giornata, c’era nebbia. Hanno perso l’orientamento, di certo non erano andati sulla strada ferrata, non avevano con sé l’attrezzatura necessaria. Semplicemente, purtroppo, la montagna sa come metterti in difficoltà quando vuole. Fu una disgrazia, come ce ne sono state tante. Purtroppo è successo a due persone a cui volevamo tutti bene».
Quel 5 ottobre la morte dei due arrivò proprio nell’estremo tentativo di aiutarsi a vicenda.