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La musica bipolare dei Rich Apes

La musica bipolare dei Rich Apes
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Provate a immaginare i Weather Report che vanno in vacanza in Irlanda con un mercantile genovese su cui i marinai nostalgici cantano delle loro crêuze: o ne viene fuori un disastro o ne vengono fuori i Rich Apes. Un disco all'attivo Giovedì, un nome che in inglese significa “scimmie ricche”, ma che strizza l'occhio a chiunque abbia anche solo una conoscenza basilare del dialetto bergamasco, i Rich Apes, dopo il viaggio interstellare a bordo della Dragonfly IV dei Sonars della scorsa settimana, ci riportano sulla terra, un piede laddove affondiamo le nostre radici, uno nella modernità. La tradizione da un lato, l'estro, la creatività, l'agilità strumentale e la sperimentazione dall'altro.

 

 

Un brano dei Rich Apes si chiama Danza Bipolare. Ascoltando tutto il disco verrebbe da dire che non c'è definizione più appropriata per questo gruppo. Suoni spesso crudi, basso e batteria che quando vengono lasciati liberi mordono, ma lasciano segni regolari e precisi; poliritmie, tempi dispari e austeritas ritmica e armonica che lasciano spazio a dolci nenie intime e folkeggianti. Un po' come quando, passata la sbornia, ci si ritrova nel letto a rimuginare e a ricordare, finalmente soli. E poi i Rich Apes sanno suonare, sono musicisti eccezionali, e una medaglia al valore va anche ai titoli dei brani, oltre che ai testi, acuti giochi di parole che non possono lasciare indifferenti (Celte Notti, Funkazz, Looppolo...). Giovedì, album di debutto, nasce prima della band: Jonathan Locatelli, leader e compositore di tutti i brani del disco, lo registra insieme al percussionista Luca Mazzola nel 2015. A loro si aggiungono in un secondo momento, per portare il disco nei locali di mezza Italia e in qualche angolo d'Europa, il bassista Gabriele Ferreri e il sassofonista Paolo Camponuovo. Ci hanno aperto le porte della loro sala prove a Ranica (stanze comunicanti con il Druso per il quale Gabriele ha dei grandi progetti, di cui parleremo in futuro...) e ci hanno raccontato di loro e di come vivono la nostra città.

 

 

Cosa state facendo adesso?
«Stiamo portando il disco in giro il più possibile, nel frattempo lavoriamo con molta calma su qualche pezzo nuovo. Va molto bene, anche perché stiamo suonando parecchio. Abbiamo aggiunto una sezione di ottoni quindi un po' di tempo l'abbiamo passato a rivedere i nostri brani. Non abbiamo fretta, ma presto crediamo arriverà il momento di registrare qualcosa di nuovo. In ogni caso da quando abbiamo deciso di provare a espanderci anche fuori dalla città la nostra priorità è suonare il più possibile».

Secondo voi esiste una scena bergamasca?
«Secondo noi sì, nel senso che a Bergamo di gruppi che suonano ce ne sono tantissimi, tra l'altro alcuni molto bravi. Certo, la proposta di Bergamo è molto interessante. Quello che manca è la richiesta».

Altrove pensate che sia meglio? Settimana scorsa i Sonars ci hanno detto che all'estero c'è più curiosità. Cosa ne pensate?
«Di sicuro è molto diverso. Hanno ragione, nel senso che nelle nostre esperienze all'estero abbiamo sempre trovato tantissime persone che si sono interessate a quello che facevamo, molto più che qua, forse. Quando abbiamo suonato ad Amsterdam ci hanno fatto persino dei regali (potete immaginare che tipo di regali...) per “ringraziarci per quello che stavamo facendo”. A Bergamo ai concerti si vedono sempre le stesse 200-300 facce. I musicisti faticano a togliersi l'etichetta di “disperati”. Davvero, suonare è un impegno grandissimo, è molto faticoso. Dietro a un concerto di un'ora ce ne sono mille di studio, di prove, di macchina, di montaggio palco. In Olanda ad esempio esiste un sussidio per i musicisti. Qui invece anche solo per suonare in strada in regola c'è un processo burocratico che ti fa passare la voglia. Il “musicista” non sempre è riconosciuto, ma va bene così. E comunque non serve andare all'estero: al sud Italia è molto diverso, ai concerti c'è molto più calore. Ma che non si fraintenda: casa è sempre casa. E ora pare che le cose anche a Bergamo stiano migliorando: i locali che quantomeno “ci provano” sono sempre di più. Secondo noi tra cinque-dieci anni quest'intervista sarebbe completamente diversa. Speriamo».

 

 

Come è cantare in italiano all'estero? Continuerete su questa strada?
«Si, alla fine non escludiamo nulla, come non abbiamo mai escluso nulla. Duke Ellington diceva che esistono solo due tipi di musica: la buona musica e tutto il resto. Quando suoniamo qualcosa che ci sembra appartenere alla prima categoria, lo suoniamo e basta, senza farci troppi problemi. Jonathan è bilingue, conosce anche il francese. Potrebbe essere interessante...».

Parliamo del vostro nome.
(Ridono, ndr) «Quando andavano in giro a suonare le prime volte solo Jonathan e Luca non sapevano mai come chiamarsi: da Luca e Johnny a Johnny and the Batman, nel senso di uomo-bat(teria). Un giorno eravamo con i ragazzi di Ctrl Magazine ed è saltato fuori per scherzo “Riciapès”. Ridendoci su ci siamo accorti che in inglese si leggerebbe “Rich Apes” e, magia, voleva dire “scimmie ricche”. Come potevamo non tenerlo?».

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