Della Val di Scalve

L'uomo che porta a Bergamo il Giro

L'uomo che porta a Bergamo il Giro
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Giovanni Bettineschi è nato a Colere il 29 ottobre del 1962 in una famiglia numerosa: erano (e sono) ben sette fratelli, il primo è Ottorino, l’ultima è Simonetta. Giovanni racconta di un’infanzia felice lungo la strada della Presolana, verso la Valle di Scalve, nel caseggiato del ristorante Serenella (gestito dalla madre), fra boschi e nevicate. Infanzia felice segnata però dalla morte prematura del padre. Lui e altri due fratelli hanno portato avanti l’impresa di manutenzione strade del padre, allargando l’attività ai campi del dissesto idrogeologico, per esempio con la messa in sicurezza dei versanti franosi, di zone interessate alla caduta massi. Negli Anni Novanta è cominciato il suo impegno sociale e politico; è diventato presidente della pro loco di Colere e quindi assessore allo Sport del comune. Dagli Anni Ottanta ha cercati di dare una mano alla maratona della Valle di Scalve. A fine Anni Novanta l’incontro con il ciclismo, complice una cena a Parre dove ha conosciuto Claudio Chiappucci, indimenticabile “Diablo” del ciclismo italiano. È nata l’idea di portare in Presolana il Giro d’Italia. Ma prima l’allenamento con due iniziative: la tappa della Settimana Bergamasca di ciclismo del 2003 Castione-Clusone e la festa a Rovetta per la vittoria di Paolo Savoldelli al Giro d’Italia del 2002. Ha due figlie (Marcella e Stefania), un figlio (Simone) e una nipotina, Melissa, di tre anni e mezzo.

 

Giro d'Italia 2011, Bettineschi premia la maglia rosa Alberto Contador [Ph. Marco Quaranta]

 

Portare il Giro d’Italia a Bergamo è un’impresa che richiede tempo e capacità. Oltre che soldi. Quanto ci guadagna?
«Niente».

Come niente?
«Non ci guadagno niente. Ho la fortuna di avere un’attività lavorativa che mi dà da vivere. Il Giro d’Italia lo porto a Bergamo per passione».

Può spiegare?
«Non c’è niente di complicato. Ho la passione per lo sport, il ciclismo mi piace, ci sono persone in gamba, è un mondo sano dove si creano relazioni umane forti. Questo mi fa contento. Guardi anche la questione del doping: il ciclismo non abbassa la guardia, è l’unico sport che fa una guerra coerente e decisa ai disonesti. Poi sembra che sia una disciplina più inquinata delle altre. Invece è vero il contrario. Questo è uno sport di sofferenza e fatica, da gente vera. Chi imbroglia, prima o poi, viene scoperto, e cacciato. Credo che altri sport dovrebbero seguire il suo esempio».

Quest’anno il Giro è a Bergamo per ben tre giorni: arrivo di tappa in città dopo avere attraversato mezza provincia, con tanto di salita a Selvino; giorno di riposo e poi partenza da Rovetta - non a caso il paese del “Falco” Savoldelli - per Bormio, una delle tappe decisive della corsa, con la doppia salita dello Stelvio. Quanto costa il tutto?
«Siamo sui trecentomila euro. Portare in una città una tappa del Giro costa tra i cento e i centocinquantamila euro. Dipende da diversi fattori: quale giorno della settimana, di che tipo di tappa si tratta, a che punto del Giro è collocata e via dicendo. Per esempio: le frazioni del sabato e della domenica costano di più di quelle del martedì».

Perché non ha trasformato questa attività in un lavoro vero e proprio?
«Perché lo spirito è diverso. Ho lavorato anche insieme a qualcuno che organizza eventi per mestiere. Loro devono ricavarne un guadagno, quindi magari limano sui particolari, si pongono in una condizione diversa dalla mia. Che ne so, la grande cena con i campioni la eviti perché così risparmi. La bella presentazione della tappa al Centro Congressi fai a meno di farla perché non è necessaria. Si lima un po’ qua e un po’ là per limitare le spese. Questo a me non piace. E se da un’organizzazione avanza qualcosa, lo tengo in cassa per l’iniziativa successiva, perché quando parti per una nuova impresa devi avere dei fondi da anticipare. Bisogna considerare che i contributi degli enti pubblici arrivano dopo mesi e mesi. Meno male che posso contare sulla fiducia delle banche, in particolare della Popolare di Bergamo, di Ubi».

 

Giro d'Italia 2011. Giovanni Bettineschi, Beatrice Ferrara, Luigi Galluzzi e Felice Gimondi [Ph. Marco Quaranta]

 

Ci sono degli amici che collaborano con lei.
«Sì, Fabio Belingheri, prima di tutto. E poi i componenti del consiglio direttivo Promoeventi: l’ex corridore professionista Attilio Rota, Dario Soldo, Alfio Belingheri, Marco Bendotti, Giovanni Lazzaroni, Diego Belingheri e Wanda Rossi».

Tutti della Valle di Scalve.
«Non tutti. Però io sono di Colere. Sono nato sulla strada della Presolana, alla Sponda, vicino al bivio per Colere».

Un posto isolato. Come si fa a vivere lì?
«Ho dei ricordi meravigliosi di quando ero bambino. Noi siamo sette fratelli, il primo è Ottorino, l’ultima è Simonetta. Mio padre aveva l’appalto per la Provincia, faceva la manutenzione delle strade. Nel 1976 è morto sul lavoro, nella sua ruspa».

Che cosa è successo?
«Era caduta una slavina là dove oggi c’è il paravalanghe, una zona abbastanza pianeggiante, la neve era un cumulo enorme, di quindici, forse venti metri di altezza. Papà si chiamava Samuele. Quel giorno doveva aprire il varco per fare passare i veicoli, ma siccome la neve era troppa, aveva scavato con la ruspa un tunnel. Quando uscì dal tunnel cadde un masso di neve sulla cabina, papà morì sul colpo. Era il 1976, io avevo quattordici anni, il primo dei fratelli ne aveva diciannove, l’ultima due. Simonetta il papà non se lo ricorda».

L’impresa andò avanti.
«Sì, noi fratelli andammo avanti. Poi avevamo il ristorante Serenella, lì alla Sponda, di cui si occupava mia madre. Non avevamo problemi economici. Escludendo la tragedia di mio padre, è stata un’infanzia bellissima. Quando nevicava andavamo a scuola con la slitta, le elementari erano giù al bivio del Castello».

E per tornare a casa?
«Eravamo a fine Anni Sessanta, primi Settanta. D’inverno passavano dieci macchine al giorno e conoscevamo tutti. Fermavamo un’auto e attaccavamo la corda al paraurti e alla slitta e ci tiravano su!».

Di che cosa si occupa oggi la vostra impresa?
«Soprattutto di dissesto idrogeologico, non soltanto in Bergamasca, un po’ dappertutto».

Il ciclismo è un hobby.
«Sì».

Anche uno dei suoi fratelli ha un hobby particolare.
«Sì, colleziona materiale bellico».

Anche aerei e carri armati.
«Sì. Aprirà presto un museo, nella zona delle miniere di Schilpario. Lei è mai stato nelle miniere con il trenino?».

Sì.
«Ha visto che è una meraviglia? Ma non le conosce nessuno. Questo è il senso della promozione del territorio».

 

Mezza Maratona dei Mille Città di Bergamo 2016. Loredana Poli, Virgilio Pomponi e Giovanni Bettineschi [Ph. Marco Quaranta]

 

È vero, è una meraviglia. La Promoeventi come è nata?
«Si faceva la Maratona della Valle di Scalve, erano i primissimi Anni Ottanta. Erano in diversi che si impegnavano, per esempio Placido Piantoni, Gianni Piantoni e Nunzio Lazzaroni del Gruppo Sportivo Valle di Scalve. Ho pensato di impegnarmi anche io. Ero presidente della Pro Loco di Colere, poi sono stato assessore allo Sport del Comune. Credevo nella capacità degli eventi sportivi di promuovere il territorio. Un altro che dava una mano era Graziano Tagliaferri che tuttora porta avanti la Maratona della Val di Scalve. La maratona si faceva alla seconda domenica di luglio».

Ma poi ha cambiato sport.
«Il fatto è che la maratona non decollava, c’erano intoppi, grane. Una volta per favorire le iscrizioni promettemmo una formaggella della Val di Scalve a ogni iscritto. Arrivò un pullman dalla provincia di Cremona, erano trentacinque iscritti. Invece ne arrivarono otto. Ma volevano lo stesso trentacinque formaggelle perché si erano iscritti. Nacque una bega. Addirittura chiamarono i carabinieri. Noi facemmo notare che nel regolamento c’era scritto che la formaggella veniva data a percorso concluso. Insomma, c’erano diversi problemi. E non si decollava. Portammo in valle il famoso mezzofondista Francesco Panetta, volevamo fare il salto di qualità, ma lui ci disse che una maratona vera, da quaranta chilometri, non si poteva fare, c’erano troppi dislivelli, sarebbe stata massacrante».

La maratona non spiccava il volo. Ma il ciclismo da dove arriva?
«Da una cena. C’era stata una manifestazione di ski roll a Parre, organizzata dalla Scame, l’azienda di materiale elettrico, era il 2002. C’era anche una campionessa russa, Olga Kaneskaya, che era accompagnata da Claudio Chiappucci, il famoso “Diablo”, campione del ciclismo. Ci trovammo a cena uno di fronte all’altro. Non so nemmeno io come accadde, ma mi balenò l’idea e gli dissi: “Ma lei che cosa pensa se portassimo il Giro in Presolana?”. Lui mi disse che la conosceva bene la Presolana, che l’aveva fatta alcune volte».

E poi?
«E poi mi disse che mi avrebbe messo in contatto con il direttore del Giro, Castellano. Dopo quel giorno io parlai con monsignor Aldo Nicoli che era un grande appassionato di ciclismo e conosceva tante persone, lui mi mise in contatto con Gianni Sommariva che era un bergamasco che contava, presidente regionale della Federazione ciclistica. Sommariva mi propose di partire con la Settimana Bergamasca, la corsa a tappe, di provare. E così organizzammo una tappa, la Castione-Clusone, molto dura. Vinse Peres Quapio. Era l’aprile del 2003».

L’anno dopo il Giro arrivò in Presolana.
«Sì, mi aiutarono anche gli ex professionisti Mirko Gualdi e Attilio Rota. Fu un’apoteosi, è giusto dirlo. I ciclisti salirono lungo la Presolana fra due ali di folla, fu un successo meraviglioso; Bulbarelli e Cassani, i commentatori televisivi, dissero che non avevano mai visto una cosa del genere. Quel pomeriggio toccammo il terzo ascolto di tutti i tempi per una gara di ciclismo; lo share fu del 47 per cento. Incredibile. Io credevo che sarebbe stata la prima e ultima nostra impresa».

 

Felice Gimondi, 70° tappa, 2012. Felice Gimondi, Michele Acquarone, Giovanni Bettineschi e Mario Vegni [Ph. Marco Quaranta]

 

Ma non fu così.
«È che mi ero appassionato, sempre di più. E avevo conosciuto tante persone in gamba. Ivan Gotti si è rivelato una persona di buon senso e un vero amico. La prima volta che chiamai Felice Gimondi al telefono mi ricordo che le dita mi sudavano schiacciando i tasti. Adesso è anche lui un amico. E poi mi dissero che una tappa e basta dal punto di vista della promozione del territorio non era significativa. Fu Zomegnan, direttore della Gazzetta a chiarirmelo. E così preparammo un programma triennale».

E oggi tre giorni del Giro. Lei porterà il Tour de France a Bergamo.
«E lei come fa a dirlo?».

Lo capisco da come parla, da come guarda. E poi lei è uno scalvino.
Bettineschi sorride. È vestito con una bella camicia azzurra, collo sbottonato, pantaloni e giacca nocciola. Dice: «Pensavamo di avercela fatta. Con Felice eravamo stati in Regione, i francesi erano d’accordo, per il 2017 o 2018. Il Tour sarebbe partito dal Veneto, poi tappa a Bergamo e una terza in Piemonte prima di entrare in Francia. Servivano tre milioni di euro complessivi. Ma Regione Veneto e Regione Lombardia all’ultimo momento non si sono messe d’accordo».

E adesso?
«E adesso ripartiamo con un progetto nuovo che coinvolge Bormio e la Svizzera».

E quindi?
Bettineschi stavolta ride di gusto, scuote la testa, dice: «Il seguito glielo dico nella prossima intervista». D’accordo Giovanni. Lo so che ci farà sognare.

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