Ma come parlate in italiano voi abitanti di Bergamo e provincia?
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La prima cosa che colpisce ol forestér - il forestiero, dunque identificabile a occhio nudo - quando arriva a Milano è che in città son tutti dietro. Dietro a fare qualunque qualcosa: dietro a lavorare, dietro a fare i mestieri, dietro a far da mangiare. Dietro sta per il locale dré, che poi sarebbe il francese en train de, ossia occupato a.
A Bergamo, invece, pare siano sempre a tirar giù qualcuno da non si sa quali altezze. Più probabilmente intendono il letto, ambiente peccaminoso quant’altri mai non per il fatto di ospitare occasionali frivolezze, ma per essere il luogo che, mediante il sonno - eccessivo per definizione -, sottrae gli uomini all’unico gesto degno della loro nobiltà: ol laurà, il lavoro.
Scendi giù da basso e sali su di sopra. Dunque scendi giù - eventualmente col rafforzativo da basso, nel caso l’interpellato, ancora sonnacchioso, decidesse di scendere de sura, cioè di sopra, dimentico del fatto che in quel caso gli sarebbe stato intimato di salire (va sö) - e non di scendere (vé zo).
Scrivi giù, fai giù quella lettera lì. Giù è pervasivo a Bergamo: scrivi giù, metti giù (per esempio: due righe, nel senso di una lettera), stampa giù (attiva la stampante). Pervasivo come i rafforzativi, perché il forestiero ha spesso l’impressione che la popolazione cittadina, indifferentemente alta o bassa, nutra forti dubbi sulla sua capacità di cogliere le situazioni al volo. Si sente pertanto sempre ricordare che la cosa di cui si sta parlando, la cui presenza è magari sottolineata col dorso della mano battente, è quella roba qui. Qui, non là, dove presumibilmente la sta collocando la distrazione dell’interlocutore. Che pare attento, ma forse (chissà mai) lo è solo esternamente. Per non sbagliare, dunque, sempre meglio riportarlo alla realtà, che è qui, non là, dove vagano (anche questo per definizione) i pensieri altrui.
Siediti qui in parte. Oltre a zo (cioè, precisiamo, di sotto) e a sö (cioè, ripetiamo, di sopra) a Bergamo la gente sta in parte. Che non vuol dire che in parte sta da una parte e in parte da un’altra. In parte vuol dire a lato, di fianco, come quando si chiede «Da che parte stai?», intendendosi a destra o a sinistra. Gesù Cristo, ad esempio, sta in parte al Padre suo. Alla destra, nel caso di specie. Dopo che uno è stato tirato giù, in molti casi gli vien dunque intimato di sedersi qui, in parte a me, o a lui, o dove che sia, comunque in parte a qualcuno.
Che mica voglia di fare quella roba lì. Perché l’inferno, a Bergamo, è l’essere messo altrove, nella solitudine dello spregiatissimo lì. L’apocalisse del lì, il giudizio inappellabile che separa le pecore del qui (in parte a me) dai capri precipitati nel lì è la formula: «Che mica voglia di fare quella roba lì» (che mia òia de fa chèl laùr lé). Formula che fa sfolgorare nella rapidità del sublime òia la quintessenza del parlare orobico, uso a cancellare d’un colpo tutte le consonanti, forse in orgogliosa, colleonica antitesi all’ebraico classico, che omette di scrivere le vocali. A questo punto ci sarebbe anche da accennare alla lunga vicenda del che, sintesi magnifica di perché + la e, che starebbe per l’italiota prima persona singolare del verbo avere. Ma per raccontarla tutta ci vorrebbe l’Angelo Mai (l’articolo avanti il nome è di rigore. Avanti il sta per davanti a), che al momento è impegnato in biblioteca.
Non ci sto più dentro. Altre forti localizzazioni di città alta e bassa sono il fuori e il dentro. «Non ci sto più dentro» (Ghe sto piö dét) non si riferisce, per esempio, al fatto che i pantaloni appaiano improvvisamente troppo stretti: significa semplicemente «non ce la faccio più», forse in relazione al problema del tempo sempre tragicamente insufficiente o dei soldi. Anche oltre l’Adda si usa dire «non ci sto dentro», nei conti, quando ci si vede costretti a cercar denari altrove. Situazione che meglio sarebbe far fuori (cioè portare a rapida conclusione, non importa - fa niente - se sommaria) subito confinandola appunto fuori, cioè nel già deprecato lì. Questo per quanto attiene all’ambito delle localizzazioni.
Quello lì l’ho visto ancora. Ma esiste anche l’ambito temporale a rendere identificabile il cittadino bergamasco in gita. E fra i diversi contrassegni di origine garantiti e controllati il più rilevante è forse l’uso di ancora nel significato di già, ossia rivolto al passato anziché ad un imminente avvenire. Dove altri dicono, ad esempio: «Vorrei dormire ancora un po’», «Vorrei ancora del vino, se possibile», il bergamasco dice: «Questo - o lo spregiato chèl lé, quello lì - l’ho visto ancora» (amò, dal latino etiam modo)», cioè lo devo aver già visto in una precedente occasione. Dobbiamo rilevare che questo uso di segnare allo stesso modo il già e il non ancora non è esclusivo della regione orobica. Il toscano usa ad esempio il prefisso ri- sia per indicare la ripetizione di un atto nel futuro (Questo articolo, giuro che domani lo riscrivo da capo), sia per indicarne una precedente occorrenza («Che c’è ristato?», significa ad esempio: «È già stato una volta da queste parti?»). Anche il latino faceva sfoggio di questa simmetria speculare ad esempio nell’uso oraziano - dunque assai nobile - di olim per ancora in futuro, in luogo di un tempo, once upon a time, per dirla in anglosassone. Si ricorderà il celebre verso: non è detto che se le cose vanno male adesso debbano andare così anche in futuro, ossia olim).
In braghini col salviettone. Alcuni glottologi tendono inoltre a ravvisare i bergamaschi di passaggio per l’uso che essi - i bergamaschi, i concittadini del Torquato Tasso e del Gaetano Donizetti - fanno di alcuni termini quali braghini per pantaloni corti o il pregevole ossimoro salviettone (un piccolo asciugamano grande, cioè il telo da bagno): il primo diventato addirittura cognome nel bresciano, e il secondo a nostro giudizio non particolarmente significativo perché diffuso in tutte le regioni sottoposte a dominio francese, nel cui idioma il nostro asciugamano viene indicato con serviette (perché era l’inserviente a porgerlo al signore), divenuto salvietta forse in memoria del colore verde salvia o forse per altra misteriosa ragione.
E l’inconfondibile cantilena. A differenza degli illustri colleghi - e spiace doverlo ammettere - noi riteniamo invece che il bergamasco lontano da casa - cosa che non ama affatto, per questo preferisce muoversi in plotoni, compagnie, brigate tendenzialmente allegre, come gli Alpini -, non si riconosce tanto dall’uso di nomi altrove poco usati, quanto dal tono generale della conversazione, dall’atteggiamento della voce, dallo sguardo indagatore anche quando si prospetti come umile e remissivo.
Un grande studioso francese della lingua ricorda in un suo saggio lo stupore grande provato nell’accorgersi di riuscire a capire cosa stesse succedendo in una città giapponese, pur non conoscendo egli né una parola né un segno di quella lingua. Era il tono delle conversazioni, il colore delle insegne, il loro affastellarsi a rendere ogni cosa presente al suo significato.
A me, per esempio, accadde una sera d’inverno che in una città lontana una signora, appena scesa dall’auto, chiedesse se quella fosse realmente la via DePretis. Disse solo: «È questa la via DePretis?». Ebbi appena il tempo di risponderle: «Bergamo, eh?», che lei si rivolse al marito dicendogli: «Pensa, Alessandro, ha capito che eravamo di Bergamo».